CHAOTIC LOVE POEMS (2015), di Garin Nugroho
“Amore è un fumo levato col fiato dei sospiri; purgato, è fuoco scintillante negli occhi degli amanti; turbato, un mare alimentato dalle loro lacrime. Che altro è esso? Una follia discreta quanto mai, fiele che strangola e dolcezza che sana”
William Shakespeare, Romeo e Giulietta, atto I
Garin Nugroho è una delle figure più affascinanti, complesse e intricate del cinema indonesiano. Autore di capolavori come lo splendido A Poet ha spesso alternato gradi film ad opere piú evanescenti e piatte, ma sempre permeate da una personalissima visione delle cose e da una sensibile umanità che continua a riflettersi mirabilmente sul suo atteggiamento nei confronti dei personaggi che mette in scena. Torna a Rotterdam con Chaotic Love Poems, un film apparentemente leggero, un Romeo e Giulietta del sud-est asiatico, la storia di due ragazzi così lontani e così vicini, che giocano a sfuggirsi, nonostante siano cresciuti nello stesso quartiere e si conoscano -e probabilmente amino- fin da bambini. Sullo sfondo, un’Indonesia che cambia, da paradiso autoctono a epopea sociale e politica sempre più caotica, teatro perfetto per questa narrazione.
Gioca Nugroho in questo labirinto, con Rumi e Yulia che si inseguono per tre decenni senza mai potersi appartenere. Dal difficile rapporto tra i rispettivi genitori alla crisi del paese, fino ai loro matrimoni che casualmente fanno saltare. Il loro è un amore che va oltre, di quelli che probabilmente non potranno essere mai vissuti, come nel re-incontro del finale che invece di porre il lieto fine ha continuamente il sapore dell’arrivederci, di quel saluto che affronta la storia e scivola sulle storie, di quell’attesa all’appartenersi che forse è la stessa attesa che appartiene alla vita. Gioca anche con i linguaggi, dal meló pop e colorato anni settanta, passando per l’amato musical di estetica anni ottanta, per chiudere con la prima estetica indie dei novanta. L’incomunicabilità è anche figlia di quel baratro di un’occidentalizzazione forzata e selvaggia in cui l´Indonesia è caduta e che pare portarsi via tutto, qualsiasi parola e qualsiasi emozione. Ma non per loro.
Si re-incontrano a teatro, lungo i binari di una ferrovia in disuso, il loro amore vivrà già di ricordi, non perché passato, ma perché forgiato in quella malinconia che scavalca i tempi, di quella poesia che ritorna a riva in bottiglie quantomai evocative. Tutto torna, la storia confonde le storie e le modella, come le anime sempre più profonde e mature dei nostri due protagonisti, e così il film scivola, sboccia e si apre. Andrebbero forse dette molte parole sul suo registro alto e basso, sui suoi inserti musicali, sulla sua incoerenza di fondo, sull’alternanza fra inserti sublimi (il ruolo del suggeritore, lui che la guarda da un muro sapendo di averla definitivamente persa) e cadute in un kitsch che sembra quasi strizzare l’occhio alla peggio Bollywood (si veda la sequenza nella quale viene installata a casa la macchina da cucire dalla madre di Yulia), ma a Nugroho tutto ciò pare non appartenere, e nemmeno per chi scrive. Il caos è vita, la vita è poesia, e la poesia è amore, in forma quasi algebrica di razionalizzazione necessaria al gioco di chi si ama e che non si può avere. Ma anche questa forma di dolore acuto dà senso al tutto, plasma l’atto, (ci) rende partecipi anche di fronte ad uno scenario in cui sembriamo inermi. Tutto si scioglie in un bacio al buio, accennato e forse mai consumato nella carrozza di un treno. Vivranno la loro vita, quasi come se si potessero appartenere al di fuori dello schermo, quando si spegne la luce e finalmente li lasciamo soli. E questo basta e avanza.
Erik Negro