CHACO (2017), di Daniele Incalcaterra e Fausta Quattrini
«Los pobres no tienen lugar»
(novella paraguayana)
Daniele Incalcaterra, direttore della fotografia e documentarista romano, presenta al DocLisboa edizione 2018 Chaco, seguito dell’assurda storia personale già raccontata nel suo precedente film El Impenetrable. Dopo aver ricevuto in eredità da un padre che non era mai stato in Paraguay ma li aveva comprati solo per investimento 5.000 ettari di foresta vergine nel Chaco, seconda foresta vergine al mondo per estensione dopo l’Amazzonia, e dopo aver passato l’intero film precedente a provare senza successo a restituire quella terra al suo popolo originario, i Guaranì, al regista italiano, ostinato e sincero, tocca ora proseguire un viaggio a dir poco kafkiano per difendere la sua terra dai molti contendenti. Il latifondista Favero, suo vicino e parlamentare del Paraguay proprietario di terreni che sono grandi 32 volte Parigi, ha prima rivendicato il possesso degli ettari di Incalcaterra, e li ha poi venduti a un altro proprietario terriero uruguaiano. Il Chaco è zona di latifondisti che sfruttano la terra disboscandola in maniera indiscriminata per far spazio ad enormi aree che usano come pascolo o per coltivare la soia, e il filmmaker italiano, che ormai vive stabilmente in Argentina, si filma e si mette molto in gioco in questa battaglia testarda contro un Potere molto più grande di lui.
L’obiettivo di Incalcaterra è creare una riserva dal nome simbolico di Arcadia e far rientrare nella sua (e loro) terra i legittimi proprietari, gli indigeni, impedendone così la distruzione indiscriminata progettata dai vicini, e ottiene dall’ex presidente Lugo un decreto nel quale si dà avvio alla costruzione della riserva. C’è da ricordare che Lugo, presidente di sinistra, è rimasto in carica neanche quattro anni (2008-2012) e non è riuscito a far rispettare le sue due principali promesse della campagna presidenziale: la lotta alla corruzione e la riforma agraria. Questo decreto fu uno delle molte iniziative per migliorare la vita dei poveri del Paraguay, ma tutte le aspettative sono poi crollate quando un “quasi colpo di Stato” ha fatto partire una procedura di impeachment che lo ha portato alla destituzione. La riforma agraria ancora oggi è il tema per molta America Latina, e se il problema della terra illegittima, dei proprietari terrieri e della politica legata al narcotraffico sono talmente connessi che è stato impossibile debellarli con un presidente come Lugo, figuriamoci per un regista italiano che lotta per gli autoctoni di una terra avuta per caso.
Incalcaterra probabilmente non conosceva questo contesto, e lo ha scoperto imbattendocisi in prima persona, fra il latifondismo e gli interessi economici enormi che ci sono dietro: il valore dei terreni è in continua salita dopo che la Monsanto ha creato un seme che resiste al caldo e al freddo, e il regista italiano fa dei calcoli e sorridendo dice a un amico che la sua terra potrebbe valere dei raccolti di soia per 10 milioni di dollari all’anno. Tanto da non dirlo chiaramente, ma la sua faccia ci fa pensare che forse la scelta della riserva non sia sempre stata cosa ferrea…
Dal punto di vista visivo il film è un continuo contrasto tra la bellezza straziante della natura contro l’orrore dell’intervento dell’uomo. La natura vergine vista da vicino si mostra in tutta la sua debolezza, non ha la forza per opporsi ai giganteschi macchinari di distruzione, e la ferocia della deforestazione ci viene mostrata in modo lampante con un’inquadratura inquietante, da un aereo, che marca la differenza tra un terreno intatto e uno dove l’uomo ha messo le sue mani.
Incalcaterra a un certo punto ci dice che l’unica cosa che può fare è un bel film, e così il cinema insieme alla sua testardaggine lo porta a continuare la sua battaglia: coinvolge radio e tv a cui racconta i misfatti subiti; prova a convincere politici dell’utilità della riserva come unico baluardo di un Ecosistema da conservare; riceve degli scienziati giapponesi che stanno studiando la deforestazione; incontra anche degli avvocati per capire tutti gli appigli giuridici che può avere contro un sistema al limite del mafioso. E a un certo punto decide pure di scrivere al Papa, elaborando una lunga lettera con tutti i dubbi di un laico, cui Francesco risponderà nella sua visita in Sud America citando il problema delle terre dei nativi, oltre a chiedere anche scusa per le enormi colpe della Chiesa nella conquista dell’America.
Nel corso del film emergerà il problema principale del Paraguay e di molta America Latina: la vita degli indigeni non vale niente, viene mostrato un vecchio massacro di campesinos e la normale violenza come risposta dello Stato. Si scoprirà che ci sono sicari pronti a uccidere tranquillamente nel silenzio generale. Incalcaterra si pone perciò dei dubbi autocritici: sarà mica il suo progetto rischioso per loro? O è forse un buon progetto, ma creato senza tener conto dei nativi? In questo senso, con una bella e intelligente svolta, a un certo punto si impunteranno anche gli indigeni, gli diranno chiaramente che vogliono un titolo di proprietà altrimenti si rifiuteranno di essere filmati. Incalcaterra si sente quasi accerchiato, e proprio questo rende il film particolarmente interessante. E forse anche per questo il regista italiano usa varie forme, nel delineare la parabola della sua narrazione: il pedinamento, un po’ di osservazione, una voce over con cui articola riflessioni, ma ci sono anche le videochiamate che Incalcaterra fa a casa per raccontare quello che sta avvenendo.
E, come nel film precedente, il regista si mette anche in scena facendo emergere così anche un po’ del suo egocentrismo. Nelle scene più “descrittive”, tutte girate in uno spazio in cima a un palazzo con vista sul Chaco, mostra le sue conversazioni con gli amici e i pochi sostenitori, e lo fa con una una messa in scena straniante, con la camera che si muove su carrelli che fanno da contrasto con il soffitto talmente pericolante da rischiare di far crollare l’edifico. È un simbolismo forse eccessivo sulla precarietà della situazione e del Paraguay, ma è probabilmente anche un segno dell’instabilità di Incalcaterra stesso, sia come uomo sia come regista.
In definitiva è un film che ci mostra l’assurda follia di una vicenda al limite del surreale in cui l’utopia sfida il potere, mentre la democrazia non è molto lontano dalla dittatura e la burocrazia sembra quasi avvolgere tutto.
Claudio Casazza