CERRAR LOS OJOS (2023), di Victor Erice
«Nell’uomo, la coscienza spezza la catena, solo nell’uomo essa si libera: fino a lui tutta la storia della vita era stata uno sforzo della coscienza per sollevare la materia, ed una compressione più o meno completa della coscienza da parte della materia che sulla prima ricadeva»
Henri Bergson
Pensare all’opera espansa di Victor Erice è come attraversare un selva inesplorata di fantasmi unici e irripetibili che si muovono sul crinale assolutamente labile tra la (forma) vita e la (forma) cinema. Significa mettersi costantemente in discussione, esplorare i limiti delle proprie emozioni, portare forse all’estremo ogni sentimento che può attraversare un’immagine da creatore di essa come da spettatore. In questo cinema, e in questo ultimo e sublime film, Erice non ci mostra l’improvvisazione ma l’imprevedibilità di ciò che significa fare cinema, uno scarto che lui assimila e sviluppa accettandone l’impossibilità e l’incompletezza, assecondandola e amandola, e rifiutandone ogni possibile automatismo. Lavori mai convenzionali, distanti dalla norma, estranei al cinema moderno come ai modelli classici, uno spazio unico e solitario in cui appassionarsi alle anime che attraversano il fotogramma e si sedimentano sul fondo di esso, in un movimento ellittico e riflessivo che solo il rapporto tra l’occhio e il cuore possono comprendere. Una questione di emozione e di forma, giustamente contrapposte e mirabilmente fuse tra loro. Ogni elemento di questo cinema alieno è una continua messa in discussione della realtà – esistente o ricreata, ricordata o inventata – che sia davanti alla macchina da presa come fronte allo spettatore, sconosciuto ma individuale, intimo nel suo attraversare lo sguardo. La «miscela di razionalità, intuizione e tatto di Víctor Erice può sembrare una rarità o un esotismo» come affermava anni fa il grande Miguel Marías sul cinema del genio di Biscaglia «distinguendolo per un atteggiamento di responsabilità morale e artistica nei confronti di ciò che analizza e insegna – siano persone, paesaggi, suoni od oggetti –, nei confronti del mezzo di cattura e di espressione che utilizza». Cerrar los ojos (in internazionale semplicemente Close Your Eyes, presentato non senza polemiche e con qualche evidente mancanza di rispetto in Cannes Première 2023 dopo avere promesso a Erice il concorso principale) – quarto lungometraggio di una carriera, per certi versi, senza eguali – gira attorno a tutto questo mentre nel frattempo si espande a molto altro. La possibilità del mostrare il cinema, in tutta la sua pulsione impura e complessità ibrida, riflettere (verso) se stesso e il suo infinito canto alla durata. Arriverà un giorno in cui davvero potremo chiudere gli occhi (e riguardare ciò che è rimasto impresso nella nostra retina)?
Il tutto parte come un giallo, anche se alla rovescia probabilmente. Nelle scarna “trama” si parla di un famoso attore spagnolo che scompare durante le riprese di un film, punto di costruzione apparentemente banale per un viaggio attorno al costruire un (altro) film. Il suo corpo non viene mai ritrovato, cosicché la polizia conclude che sia stato vittima di un incidente in mare. Parecchi anni dopo il mistero attorno alla sua scomparsa viene riportato sotto i riflettori da un programma televisivo che delinea la sua vita. Emergono così immagini esclusive delle ultime scene da lui interpretate, girate dal suo caro amico regista che ora si batterà alla sua ricerca – innescandone un’altra, etica ed estetica, sul simulacro di ciò che (ci) rimane di un immagine. Un mistero che in un certo senso rappresenta la stessa figura di Erice, dall’apertura di quest’opera mistica legata alla figura decadente di Triste-le-Roy (di borgesiana memoria) nel film, del film, di un altro film (che nella “realtà” ci sarebbe forse potuto anche essere, realizzato poi da Trueba). Una fotografia di una ragazza asiatica è tutto ciò che resta. Il rapporto tra il regista e l’autore, entrambi poeti alieni dalle esigenze della contemporaneità, si fa fitto e trasparente nella selva di fantasmi e illusioni che continuano ad abitare fotogrammi oramai deragliati. Proprio quella misera fotografia diventa un “oggetto cinema” che apre a spazi e tempi di un altra storia, uno squarcio di passato riconnesso al presente, per ricreare una forma di futuro per quel film che non è stato. In questo, nel senso di memoria, identità, fantasmi, nel sottile filo che tiene assieme amnesie e malinconie, ci troviamo subito davanti a una delle più grandi opere sulla durata del nuovo secolo. Dove porta quindi questa ricerca? A una miriade di segni e di simboli che si perdono nella spiaggia dove il regista abita e torna romanticamente sconfitto dopo ogni esperienza. Giunge un giorno però in cui i tasselli si ricompongono e l’attore forse ricompare in un ricovero; la memoria se n’è andata, l’astrazione ha preso il sopravvento, lo sguardo è ormai rivolto verso il vuoto. In questa infinitesimale ri-conoscenza, tra i due, di sguardi e di gesti c’è la ricostruzione minimale della tela di un rapporto meraviglioso, che nell’immagine ha trovato il suo senso d’esercizio. E quindi cosa, se non l’immagine, può permettersi di poter rievocare la memoria? Nel finale, nel ruolo del vecchio proiezionista che matericamente ci porta a tornare a vedere immagini (le prime) quelle di apertura, ci sta il senso del cinema e di una vita tutta, scardinando definitivamente la frontiera possibile tra autore e opera, l’infinito punto di non ritorno. «I miracoli al cinema non esistono più dai tempi di Dreyer», si dirà all’interno del film, ma cosa può essere il cinema stesso se non un miracolo? La forma del nostro stesso ricordo lo è, naufragio della forma vita e rivissuto nell’informe cinema, fragile, vulnerabile e impossibile. Non è l’occhio di Brakhage che ancora fatica ad aprirsi, è l’opposto (come lo stesso) che mai vorrebbe chiudersi nella sua assoluta purezza. Quella purezza della durata, il susseguirsi di un istante all’altro, l’incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. Lì in mezzo sta il cinema, istantaneamente morto e così perennemente vivo nel non negarsi mai, nel suo mostrarsi, nel suo esser(ci).
C’è la forza della parola, nei gesti e soprattutto negli sguardi, c’è il filmare la durata nel farsi del film, c’è il sogno (del tempo cinema) di una vita precedente (nello spazio cinema), in una dimensione altra, calda e umana, dilatata, a ricordare l’espansione infinita de El sol del membrillo. C’è la forma dell’incompiuto, c’è la dissipazione del linguaggio, c’è l’impossibilità del viaggio che aleggia in tutto El Sur (di cui questo potrebbe rappresentare una qualche altra possibile continuità). C’è soprattutto quel chiudere gli occhi che termina parallelamente El espíritu de la colmena e questo Cerrar los ojos, con un senso convergente e pure opposto, comunque sconvolgente. Là dove quel serrare le palpebre era una tentativo di trovare uno spirito, qui è un ri-trovare una parte del sé. Proprio il tempo appare eroso, da un punto di vista formale ed emotivo, condensato nel senso inquieto della mancanza e della scomparsa (anche quella dello stesso Erice, da trent’anni lontano dalla macchina da presa), e forse soprattutto nel naufragio del cinema (e forse della stessa vita). Quello che nasce da questi sentimenti dalla densissima profondità è un film irregolare, meravigliosamente impossibile e non finito, in cui l’autore esprime se stesso nell’essere altro/i, nell’osservare un altra (sua) vita dal mirino per guardare in faccia la dimensione di quel tempo, per far affiorare l’effimero della memoria come della celluloide: la finitezza dei supporti, l’infinitezza precaria dell’immagine. Un cinema di prosa poetica e misteriosa, dal modernismo al classicismo (andata e ritorno, forse) in cui Erice fa i conti con i propri fantasmi in schizzi abbozzati di senso materico, incontrando sulla propria strada Welles come Hawks, Nick Ray come James Whale, rimandi espliciti a Dreyer come quelli impliciti a Rossellini, tutti autori che ritornano nella carriera del visionario basco. Tutto questo per (di)mostrare come la rivelazione sullo schermo potrebbe avere (come no) una possibilità di comprensione, e come le immagini stesse, dall’essere veicoli di scoperta del mondo e dello spirito, diventino simbolo puro di attraversamento evocativo della memoria e di ciò che rimane ancora impresso nella retina quando, appunto, gli occhi si chiudono. «The story of the film wants to portray to the audience revolves around two, intimately connected themes: identity and memory. […] As I have worked on the scripts for all my films, it is only natural to assume that the themes they deal with have to do with my most intimate concerns and interests in life, those that belong to the art of poetry, where the experience of watching a movie, and I cannot insist on this enough, becomes a protagonist in its own right». Queste le note al film dello stesso Erice, che raccontano un’opera di realtà e immaginazione, nell’illusione di atmosfere e paesaggi, di modernità e leggende, di derive contemporanee in cui passato e futuro possono coesistere solo nell’incertezza del presente. Nei suoi quattro lungometraggi pare quasi verificarsi una forma di ascensione infinita (una specie di Scala Shepard emozionale), a definire un cinema unico di isolamento e resistenza, personalissimo e sperimentale, avanguardista e classico, profondamente voluto e cercato fino alle conseguenze estreme di sofferenza creativa assoluta. Ne è prova questo finale meraviglioso quanto dolorosissimo, minimale ed eternamente espanso, assoluto, vitale all’inverosimile nella sua mortalità d’oblio. Tutto ciò che resta siamo noi tutti, con le nostre paure, con le nostre ossessioni, con le nostre derive sentimentali e memoriali mai così presenti ed evocate. Cerrar los ojos è un lavoro apparente sul miracolo del destino di un’immagine (anzi lavora proprio su questo), dall’esperienza emotiva a tratti insostenibile e così commovente; sublime nella sua incompiutezza, popolato da personaggi che ci interessa conoscere, che prendono vita propria e che conservano sempre dentro di sé una parte di mistero. Un segreto che Erice, come in tutta la sua fimografia irripetibile, rispetta e permette loro di custodire. Sempre citando questo esemplare scritto precedente di Marías: «Tutto ciò che Erice ha girato è completato dal suo lavoro invisibile e interiore, da una costante riflessione sul cinema e sulla filmabilità che esercita quando vede altri film, quando parla, quando cammina, quando guarda». Capita così, una notte di inizio estate, di parlare, camminare, guardare raccontando questo film a una persona assai cara, e di pensare a quella lacrima che per pochi attimi anticipa il chiudersi degli occhi. Capita così di provare tutte le emozioni del mondo in un’immagine venuta meno, nel buio che esige la luce delle nostre anime.
Erik Negro