CARICATURANA (2021), di Radu Jude
È dai tempi della Seconda Guerra Mondiale che non esistono più i materiali dell’esperimento che per la prima volta consentì a Lev Kulešov di dare il suo nome all’effetto che sta alla base di ogni sintassi filmica. Lo si conosce per gli scritti dell’allora allievo Pudovkin, che lo descrisse minuziosamente nel 1922, ma le immagini originali sono da considerarsi perdute per sempre, travolte dagli eventi bellici. Eppure al sempre più prolifico Radu Jude, di ritorno a Locarno con i nove geniali minuti di questo Caricaturana pochi mesi dopo l’Orso d’Oro di Bad Luck Banging or Loony Porn e con l’altro corto Plastic semiotic già pronto per Venezia, non servono necessariamente quei nitrati, per continuare a dimostrare la validità e spingersi ancora oltre quella fondamentale intuizione teorica alla base di ogni interazione in montaggio fra campo e controcampo. Non serve necessariamente quella singola e leggendaria ripresa, sempre la stessa, con il primo piano il più possibile neutro e inespressivo del noto attore sovietico del tempo Ivan Mozžuchin alternato prima a un piatto di minestra, poi a una bara e infine ai giochi di una bambina, con il pubblico pronto a testimoniare come quel volto in realtà sempre identico esprimesse alternativamente, a seconda del contesto fornito dall’altra immagine, fame, dolore e tenerezza. Per capire ancora una volta che cosa sia il cinema sono più che sufficienti una manciata di vecchie vignette satiriche, tratte dalla serie di 101 litografie in bianco e nero Caricaturana realizzate fra il 1836 e il 1842 da Honoré Daumier, su cui già nel suo La natura non indifferente si era interrogato l’altro grande allievo di Kulešov Sergej M. Ėjzenštejn. Tre distinti passaggi in cui cambiare radicalmente significato attraverso le interazioni dei disegni con le voci fuori campo e con il testo dei cartelli, dalle riflessioni del regista di Ottobre e de La corazzata Potëmkin su come la potenza drammatica delle caricature di fosse data dai tre diversi momenti in cui erano state ritratte la testa, le mani e le gambe di Frédérick Lemaître nel ruolo del truffatore Robert Macaire alla lettura delle pungenti e acide didascalie originali («Signori, come vedete questo intervento chirurgico, ritenuto impossibile, è stato un successo», «Ma, dottore, il paziente è morto!», «Embé? Sarebbe morto lo stesso»), fino all’aperto e divertito gioco di utilizzare le illustrazioni come scherzoso commento alla (sur)realtà contemporanea, lasciando volutamente fuori guerre e virus per tirare in ballo Gwyneth Paltrow e la presunta esplosione di una delle sue contestate candele aromatizzate alla vagina.
È un vero e proprio studio a tutto tondo, quello che Radu Jude nasconde fra le pieghe umoristiche del breve ma denso Caricaturana. Dai gesti mimici dell’attore all’arte del caricaturista, dalla Storia alle storture della società, dall’immagine alla parola, fino alla più pura teoria cinematografica che, quasi come un testimone, passa dal maestro all’allievo e costantemente si rinnova, dall’Ottocento delle vignette agli anni Venti dell’Avanguardia Sovietica, fino ai giorni nostri non solo rumeni. Un percorso inedito, differente anche all’interno della sempre varia e spiazzante filmografia di Radu Jude sia da quello delle fotografie all’albumina già protagoniste di The Dead Nation, sia dai documenti di guerra con cui l’autore rumeno aveva raccontato il pogrom di Iaşi in The exit of the train. Questa volta a interessarlo c’è la rappresentazione che diventa satira, degli uomini tronfi e tondeggianti, delle donne che cercano di emergere dai margini, del potere che viscidamente fa il suo corso senza rispetto né per la vita né per la morte, e soprattutto – emblematico il breve dialogo fra il giornalista e l’editore, con il primo immediatamente pronto a riscrivere un articolo a sostegno di una legge che aveva appena contestato – senza più la minima etica né la più basica onestà intellettuale. Ci sono le riflessioni di Ėjzenštejn su Daumier e c’è l’archetipo del mistificatore senza scrupoli incarnato dal personaggio di Macaire, ancora oggi emblema di quella stessa società ipocrita e corrotta che già nello scoppiettante finale di Bad Luck Banging or Loony Porn aveva trovato ciò che si merita. C’è la Storia del mondo che procede a braccetto con quella delle arti e del cinema, fino a una completa corrispondenza. E poi, ovviamente, c’è lo specifico filmico dell’effetto Kulešov, pronto a scattare nel forzato dialogo (con)sequenziale delle vignette, questa volta puramente testuale, con le voci e con le scritte a video. Un linguaggio cinematografico sempre differente con cui affrontare ancora una volta tanto il reale di ieri e di oggi quanto le forme della settima arte, fino a riflettere sul senso stesso di un cinema che non ha nemmeno bisogno di immagini in movimento per deflagrare, ma solo del montaggio, solo dell’unione fra singole parti, fra video e audio, fra due caricature, fra il disegno e la parola. È la sua capacità espressiva e comunicativa, è il suo creare costantemente una lingua universale, è il suo comporsi di più elementi attraverso i quali costruire i messaggi e trasmetterli all’emotività percettiva dello spettatore. È la sua più intima essenza, o forse è più semplicemente la sua magia. Quella che attacca alla poltrona. Quella che fa ridere, piangere, pensare, ricordare e vivere di fronte a uno schermo. Quella che ha qualcosa da dire e che sa sempre perfettamente come farlo.
Marco Romagna