CARELESS CRIME (2020), di Shahram Mokri
Il tempo e il cinema, il cinema e il tempo. O forse sarebbe meglio dire che il tempo è il cinema, perché nulla è più efficace dei linguaggi manipolatori della settima arte per analizzarlo e comprenderlo nel suo scorrere e nel suo ciclico ripresentarsi, mentre il cinema è (sempre stato anche) il tempo, quello che riempie, quello che rimette in scena, quello che sovverte, quello su cui non può fare a meno di fondarsi in ogni sua durata. Due concetti indissolubilmente legati fra loro e che si nutrono l’uno dell’altro, marchiati a fuoco sulle rispettive epidermidi, compenetrati e vicendevoli fino a sovrapporsi, (con)fondersi, diventare in qualche modo la stessa cosa. Proprio come la finzione, che anche se scandita in più livelli non potrà mai prescindere dalla realtà di essere un film (magari in un film, magari in un altro film), e proprio come ogni simbolo e ogni metafora su cui la messinscena si basa, che in ogni loro possibile declinazione saranno sempre e per sempre a fianco del vero e tangibile che rappresentano. Non può che essere lo schermo, il punto di incontro fra le traiettorie invisibili e imprevedibili che intersecano ogni storia con la Storia, e quindi il cinema con il tempo. Quel telo bianco sempre pronto a illuminarsi di sogni e di idee, quel confine fra il reale e i diversi strati di immaginazione che catalizza gli sguardi e che dolcemente trasporta nella fantasia e nella riflessione. Che poi, a ben vedere, quello su cui si danno ripetuti appuntamenti i diversi metalivelli di Careless crime è lo schermo di tutto il cinema del talentuoso e sempre teoricissimo Shahram Mokri, da sempre fine analista del tempo attraverso l’aperto gioco con i meccanismi della narrazione, da sempre astuto pensatore in grado di riflettere politicamente sul presente arginando le strette maglie della censura iraniana, da sempre straordinario demiurgo nell’assemblare e nel dosare l’intrattenimento e la stratificazione filosofica – e non è un caso, in tal senso, che nel cinema-meta-cinema di Careless crime appaiano esplicitamente le locandine delLo squalo e di Close-up, come a dichiarare l’ambizione della ricerca di una summa fra il divertimento mainstream intelligente di Spielberg e le abissali profondità autoriali di Kiarostami.
Questa volta, però, il tempo non è più quello del vertiginoso e infinito pianosequenza che sfondava ogni possibile spazio e cronologia in Fish and Cat, né quello dell’altrettanto sorprendente Invasion rimasto tristemente una chicca per pochi nella troppo vasta e altalenante Panorama della Berlinale 2017. Esattamente all’opposto, in questo Careless crime sbarcato al Lido fra gli Orizzonti (perché non in concorso?) di Venezia77 e nettamente fra le visioni più esaltanti della Mostra, è attraverso l’estrema frammentazione che si compone l’analisi del tempo e dei tempi, e quindi del cinema, di Shahram Mokri. Passa tutto da un’entusiasmante serie di cortocircuiti, da una scatola cinese di sale e di immagini, da un fuoco d’artificio che esplode durante un giro di giostra. Da una magia meta-narrativa di sensi e di stratificazioni, fatta di schermi negli schermi (negli schermi, negli schermi) che sono porte girevoli fra diversi/uguali mondi e generi cinematografici, fra livelli di messa in scena e tempi che si rincorrono fra le generazioni, fra un fuoco e un missile, fra una poltrona e un fotogramma. Fra la tradizione persiana di personaggi mitologici e una pagina di cronaca nera di quarantadue anni fa, fra una commedia surreale di situazioni oscure e il noir “sbagliato” dei quattro attentatori incapaci, fra gli specchi (e quindi gli schermi) aboliti dal sergente del film nel film devastato dal senso di colpa per aver investito in retromarcia il figlio e gli schermi (e quindi gli specchi) che rappresentano e riflettono (ma non vorranno mai realmente dividere) le differenti realtà sovrapposte.
Parte da un tragico evento realmente accaduto, il caleidoscopio narrativo e ipercinefilo di Careless Crime. La base è il rogo doloso del cinema Rex di Abadan, che nel 1978 costò la vita quasi a 400 persone nell’ambito di quelle violente manifestazioni che nel ’79 portarono alla cacciata dello Shah di Persia e all’istituzione della (più o meno) Repubblica Islamica dell’Iran. Una scelta non casuale, quella di Mokri, non tanto per il simbolismo metacinematografico insito di per sé (specialmente dopo gli Inglourious Basterds tarantiniani e il loro sfacciato cambiare la storia) in una sala in fiamme, quanto per la rilevanza politica del fatto storico, sulla cui scia suggerire e volutamente insinuare nel primo strato di finzione un evidente parallelo antigovernativo attraverso i tentativi di emulazione contemporanea da parte di quattro attentatori. Come se quel vecchio incendio appiccato per protestare contro il processo di occidentalizzazione fosse un prisma di realtà (im)possibili che rimane al centro per mostrare in tempi e schermi differenti le sue infinite parallele sfaccettature. È l’ardere del Rex “dimenticandosi” di lanciare l’allarme e salvare gli avventori quel “crimine sconsiderato” del titolo (e del titolo nel titolo, sempre per la regia di Shahram Mokri, mentre come film nel film nel film verrà scelto quel The deer di Masoud Kimiai che era realmente in programmazione al Rex al momento dell’attentato incendiario). Ma il “crimine sconsiderato” è anche il tentativo di replicarlo nell’oggi, e quindi di renderlo riproducibile, eternamente presente, reiterabile come un dialogo al quale tornare in differenti momenti e da differenti punti di vista.
Sta nell’atto stesso di rimettere in scena il passaggio dalla memoria (personale come del cinema) che costantemente rievoca l’incendio nei luoghi, nelle parole, negli eventi e nelle (meta)proiezioni, al futuro di una bomba inesplosa da chissà quanto che ridiventa missile e quindi cometa, mescolando definitivamente i tempi e le realtà come a riportare ancora una volta il braccio all’inizio del disco per farlo ricominciare da capo. Proprio come sta nell’atto stesso di guardare la partecipazione alle bizzarrie del tempo, dove il passato filmato (o bruciato) è riproducibilità presente, dove all’inesorabile andare avanti del cinema corrisponde l’andamento ondivago, privo di argini e non parallelo del tempo (non più) cronologico, e dove il presente di una proiezione è già uno spingersi verso quel futuro in cui sarà finita. Tanto che tutti, negli strati di finzione di Careless crime, parlano costantemente di cinema, di attori e di registi, della proiezione o del luogo. Dagli esercenti che vogliono aumentare a dismisura la capienza della sala ai quattro che la cospargono di acquaragia e sabbia per distruggerla, dalla coppia di spettatori che flirta sulle poltrone ai lavoratori che controllano e puliscono i locali del cinema, dall’esercito protagonista del film nel film che disseppellisce il vecchio ordigno bellico inesploso alle giovani ragazze che lì vicino monteranno invece uno schermo su cui ricominciare a guardare. Mokri li pedina rimanendo sui volti, girando loro intorno, alternando realtà (che poi sono finzioni) prima o poi destinate a convergere e a incontrarsi, fra laghi che non riflettono l’immagine e farmacisti/pusher di legno privi di volto figli diretti del folklore locale, fra streghe «donne ma a volte uomini» che ora appaiono e ora scompaiono e specchietti retrovisori che non hanno saputo salvare una vita, e che ora nient’altro sono che trauma e rimpianto. Fra i cellulari nel passato del meta-film e l’incipit del meta-film che appare (im)possibile nel cielo perennemente presente del cinema da bruciare. Sempre ammesso che al momento decisivo non si rimanga bloccati con una torcia di saggina in mano. Forse intrappolati nel tempo, di sicuro intrappolati nel cinema. Sempre ammesso, e non concesso, che fra tempo e cinema ci sia ancora una qualche differenza.
Marco Romagna