CAPTAIN VOLKONOGOV ESCAPED (2021), di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov
Fiaba nera impregnata di forti connotati morali, Captain Volkogonov Escaped è di fatto un’amara riflessione sulla banalità del male nella Leningrado degli anni ’30, in pieno regime Staliniano. Il film della coppia russa Aleksey Chupov e Natasha Merkulov, in concorso alla 78esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, intreccia parabola morale a fiaba noir nel contesto storico di una Russia lacerata da morte e violenza, oppressa da un regime dispotico quanto crudele che rende tutti, carnefici e vittime, schiavi di un terrore cieco. Nel 1938, Fyodor Volkogonov è un giovane capitano incaricato di torturare brutalmente persone considerate scomode al sistema, al fine di estorcere loro una confessione e condannarli per crimini mai commessi. Divenuto anch’egli un bersaglio a seguito del suicidio del suo superiore, Fyodor si vede costretto alla fuga, fuga che assume i connotati di una ricerca dai forti elementi sovrannaturali e fiabeschi, non priva di una forte simbologia religiosa. Ricevuta la visita del suo defunto compagno e amico, Veretennikov, riemerso appositamente dagli inferi per offrirgli la salvezza dalla dannazione eterna mediante il perdono di almeno una persona tra i parenti delle sue vittime, Fyodor si lancia in una corsa contro il tempo alla ricerca della propria redenzione, prima di venire arrestato, ucciso e quindi condannato per sempre all’inferno.
Il capitano, sbalzato dall’ambiente protetto e quasi giocoso della caserma, si ritrova di colpo in una Leningrado dolorante, grigia e insidiosa, mentre i registi russi dipingono il suo viaggio, in modo surreale e quasi paradossale, come una progressiva perdita di innocenza o quanto meno di ingenuità: nel mutare da spietato esecutore a uomo pentito, Fyodor, sempre più consapevole delle proprie colpe, conosce il dolore più avvilente, fino a un rimorso senza speranza e al sacrificio più estremo. Prima e seconda parte appaiono antitetiche, sia per toni sia per colori. Mentre nella prima, dalle tinte ocra, rosse e dorate, quasi favolistiche, si dipinge un ritratto infantile di questi giovani e robusti ragazzi russi, impegnati a giocare a pallone, a cimentarsi nella lotta e a cantare nel coro della caserma, apparentemente interessati soltanto a quale succo ci sia in mensa, nella seconda parte i colori si fanno freddi e cupi, nelle tonalità del verde e del grigio, a dare un senso asfittico e claustrofobico alla discesa di Fyodor in una Leningrado dai toni underground, sporca quanto pericolosa. Un’inchiesta nel cuore di un regime dispotico e assolutista che ne approfondisce i meccanismi e la cecità, scavando al contempo nella coscienza di un uomo, un assassino, a esplorare il sottile confine tra bene e male, tra innocenza e paura. Quanto emerge non è soltanto una parabola morale dai forti tratti dostoevskiani, ma una riflessione sulla banalità del male e sulla codardia dell’uomo: i personaggi appaiono come ingranaggi intrappolati in una macchina che impartisce ordini, ruoli da rispettare, a cui non possono sottrarsi pena la propria sopravvivenza. Questi soldati del male, portatori di morte, vengono presentati quasi come bambini a scuola, infantili nei loro giochi e succubi ai loro terribili doveri, tra cui l’uccidere. Lo stesso Maggiore Golovnya, segugio sulle tracce del Capitano, appare un omino schiacciato dalla responsabilità del suo incarico, preoccupato più della propria tosse cronica che di trovare il giovane in fuga, mentre tutti, vittime e carnefici, si rivelano manichini privi di volontà, incastrati in un gioco di convenienze, preoccupati soltanto della propria sopravvivenza. Incapaci di reagire, di affermare la propria volontà, di porsi al di fuori dei ruoli già imposti. Vittime, gli stessi carnefici, di una violenza cieca, che ferisce forse più chi la infligge di chi la subisce.
Nell’indagare sentimenti quali paura e coraggio, la pellicola mette a confronto leggi umane e leggi divine, ponendo al centro della propria inchiesta la coscienza del singolo, la sua capacità di scegliere e di operare secondo il proprio libero arbitrio. Tutto appare già scritto, già stabilito da un silenzioso drammaturgo assente dalla scena, un legislatore dispotico e maligno che ha assegnato le parti, imponendo il suo volere con la paura: persino le vittime appaiono sottomesse a un sistema, ritenuto infallibile, al quale si affidano totalmente presi da pura codardia, incapaci di vedere oltre il terrore, oltre il sospetto e l’umana crudeltà. Amara riflessione sulle implicazioni della paura, Captain Volkogonov Escaped racconta l’incapacità degli uomini di andare oltre ciò che conoscono, ciò che gli è stato insegnato di temere. La ricerca del Capitano si riverbera in una serie di sconfitte, segnata dall’impossibilità di trovare un’anima compassionevole che possa commuoversi per la sua supplica, e sono ben poche le figure capaci di liberarsi dai fili che il loro ruolo comporta: sarà Fyodor l’unico a scoprire, attraverso quella che si rivelerà una ricerca interiore scaturita dal puro terrore e presto mutata in sofferta consapevolezza, un sistema di leggi, mute quanto sacre, ben superiori a quelle degli uomini.
Il film russo scava nel significato di pentimento e nel concetto di libertà, di un’assoluzione forte di una pregnante morale cristiana, dipingendo una serie di quadretti di vita abietta, squallida quanto disperata, che raccontano il dolore degli ultimi, degli abbandonati, dei soli affrancati dalla paura, liberi di agire secondo compassione e carità. In una discesa sempre più profonda negli intestini della città, così come nei meandri della propria coscienza, Fyodor affronterà le sue colpe, incarnate nel corpo infermo di una madre morente in una soffitta dimenticata. Una scena di reminiscenza caravaggesca per colori e impianto formale, che ricorda una muta Deposizione nel suo trattare il dolore, essenziale nel raccontare una comunicazione silenziosa e una profonda presa di coscienza esplicitata in un semplice quanto umile gesto di carità umana: nel lavare la donna, Fyodor lava le sue stesse colpe, ricevendo infine il perdono. Un perdono completo, silenzioso come quei loro gesti che, in una scena muta e sublime nelle sue implicazioni spirituali, restituisce ai personaggi la dignità umana, liberandoli dalle macchinazioni di un sistema corrotto. Un perdono che salva il Capitano non dalla dannazione ma dalla paura, rendendolo finalmente libero: Fyodor, convinto di non meritare il paradiso, sceglierà inaspettatamente di morire suicida, in un atto finale di affermazione della propria volontà.
Ed ecco la struttura circolare: l’azione drammatica comincia con un suicidio e si chiuderà con un suicidio. Tuttavia, questo va detto, la tensione accumulata non trova il suo adeguato scioglimento nel gesto finale del protagonista, che invece di sconvolgere lo spettatore appare, da un punto di vista tecnico, raffazzonato e frettoloso al punto da lasciare in dubbio su quanto appena visto. Eppure il film, pur peccando per una certa ripetitività, risalta per l’atmosfera sospesa e surreale che, oltre a renderlo ancora più fiabesco, lo trasforma in una storia dal forte impatto, in grado di raccontare un periodo e un tema scomodi da un’angolazione diversa. Al di là di certe ingenuità e sparute incoerenze, Captain Volkogonov Escaped è un film forte, cupo, un più che riuscito thriller metafisico che sarebbe troppo ingeneroso liquidare per una sola inquadratura non del tutto convincente. I due registi russi riescono con successo a raccontare qualcosa di estremamente crudo e realistico senza mai sfociare nel prolisso, nel moralismo didascalico, mantenendo tanto i toni sospesi di una fiaba quanto i tratti del film d’azione, in cui fuga e ricerca interiore si intrecciano in una spietata gara contro il tempo.
Anna Chiari