Good mornin’
Good mornin’
We’ve talked
the whole night through
Good mornin’
Good mornin’ to you
È possibile per un autore entrare nella storia della Settima arte senza rivoluzionare i codici del linguaggio cinematografico, ma rincorrendo la perfezione della forma e del contenuto come somma di elementi perfetti? La risposta pare proprio essere sì. Siamo nel 1952 quando Cantando sotto la pioggia segna una tappa fondamentale all’interno del musical e non solo. Lontano anni luce da qualsiasi deriva meramente concettuale, trionfo assoluto di vita, amore, colore e Arte, il capolavoro della coppia Donen/Kelly, qui alla loro seconda collaborazione dietro la macchina da presa dopo Un giorno a New York (1949) e prima di È sempre bel tempo (1955), rappresenta uno straordinario inno a alla bellezza del Cinema e, per estensione, all’insostituibile bellezza dell’esistenza tout court. Un caleidoscopico sguardo sul mondo dello spettacolo che parte dalla complementarietà della rappresentazione filmica e di quella teatrale, due mondi che possono e devono contribuire in maniera significativa ad arricchirsi reciprocamente, restituito nel suo avvolgente Technicolor dalla stampa 35mm d’epoca proiettata a Bologna nell’ambito del trentesimo Cinema Ritrovato. Cantando sotto la pioggia è cinema allo stato puro, fenomeno culturale, mito, complice il genio di Stanley Kubrick che, in Arancia meccanica (1971), ha trasformato il soave refrain Singin’ in the Rain in uno straniante canto di morte che echeggia spettrale tra anguste geometrie e grandangoli deformanti.
La fabbrica dei sogni raramente è stata così pura e candida nel lasciare da parte ansia, preoccupazioni, traumi e incertezze. I protagonisti di Cantando sotto la pioggia rincorrono la magia della pellicola in un tourbillon metacinematografico mai fine a se stesso. Il passaggio dal muto al sonoro, datato 1927, con tutti gli aggiornamenti che ne conseguono, diventa il motore di un canto d’amore che parte dalle origini del Cinema, quando la gestualità era l’unica forma espressiva, per arrivare al potere della parola. O meglio, al potere del canto, visto come forma sublime di adeguamento ai tempi che mutano inesorabili. Celebrazione assoluta dell’artificio e della finzione, proprio come accadeva nelle opere di Powell e Pressburger e, in particolare, nel mélo Scarpette rosse (1948), che tanto ha influenzato la struttura filmica anche di Un americano a Parigi (1951) e Spettacolo di varietà (1953) di Vincente Minnelli, Cantando sotto la pioggia non si ferma al nostalgico sguardo verso un passato da rimpiangere, ma riesce a focalizzarsi con notevole gusto per il dettaglio anche sull’industria cinematografica dei primi anni ’50, descrivendo set ribollenti e caotici che accostano cappa e spada e avventura, dramma e commedia. Ma è il musical che salverà il mondo (del Cinema). Fantasia, sentimento, esplosiva saturazione del colore, cartoon, scenografie barocche, e ancora ballo, danza, vaudeville e burlesque. Tutto magnificamente racchiuso nella lunga sequenza del film nel film, con Gene Kelly che, al fianco della sensuale e magnetica Cyd Charisse, dà vita a una delle pagine più belle di tutta la storia della Settima arte.
Dignity, always dignity. La joie de vivre di Gene Kelly, resa magnificamente da un viso dai tratti quasi angelicati e da un sorriso da cui è impossibile non farsi contagiare, è il segno distintivo di un’opera che pulsa e vive sulla base di un energico approccio al ballo che ha fatto scuola. All’epoca della realizzazione del film, Il leone della MGM ruggiva più forte che mai e, nonostante la major avesse deciso di riutilizzare molti brani già scritti in passato, con l’eccezione di Make ‘Em Laugh e Moses Supposes, ogni singolo numero musicale diventa un inno alla perfezione della messa in scena. A un anno di distanza dall’avvento del CinemaScope, il formato panoramico che diventerà il tratto distintivo delle grandi produzioni hollywoodiane della Golden Age, Donen e Kelly sfruttano al meglio le potenzialità del Technicolor, incorniciando nel formato 1.37:1 una serie di quadri che segnano l’esplosione del colore ed esaltano le performance degli attori, seguiti da una macchina presa mobilissima e dinamica. Oltre al protagonista, all’apice del suo estro artistico, “costretto” a danzare con quasi 40° di febbre durante il celeberrimo numero che dà il titolo al film, con la pioggia unita al latte perché fosse più visibile, non sono trascurabili le prove attoriali della dolcissima Debbie Reynolds e dell’irresistibile Donald O’Connor. L’avvento del sonoro è stato, al di là delle rivoluzioni linguistiche, il tramonto di carriere “buone solo a far smorfie”, un drastico cambio della recitazione, un attentato al mondo di lustrini dello star system. Fino al doppio sipario finale, Singin’ in the rain, la fuga, il giusto riconoscimento, l’amore. È nata una nuova stella, perché il Cinema vince sempre.
Davide Dubinelli