Con Leviathan, nel 2012, tra la versione cinematografica e quella a installazione, i registi Lucien Castaing-Taylor, inglese, e Véréna Paravel, svizzera, in realtà antropologi che usano il cinema per discutere moralmente le condizioni del reale e del contemporaneo, avevano composto un interessante tassello di cinema documentaristico, usando le GoPro per distorcere i punti di vista irreali e rarefatti degli oggetti e dei lavoratori, costruendo una specie di epillio mastodontico e fuori dal tempo sulla bellezza dell’oggetto geografico, sulla capacità di astrazione di un mondo reale. Era come un cantico (del cigno) di una sensazione, uno spostamento di collocazione dello sguardo aggrappato tanto a Herzog quanto a Jackson Pollock, un flusso etereo in un’idea di cinema indescrivibile, impenetrabile. Come Leviathan lavorava sulla destrutturazione di determinati ritmi e determinati dogmi usando come principale oggetto la natura e il tempo, altrettanto Caniba lavora sull’uomo. Presentato nella sezione Orizzonti alla 74esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Caniba è più ‘imperfetto’ di Leviathan, diversamente ambizioso ma più difettoso e faticoso – ma, allo stesso tempo, contiene anche più riflessioni possibili. Alla fine, Leviathan sin dal titolo si pone come un’opera monolitica, una scultura atemporale di un qualcosa che procede con la stessa fluidità per tutta la propria durata, un gioiello inscalfibile; Caniba, invece, sin dal soggetto, è un documentario tanto più folle quanto meno basato sull’esperienza e più sul fluire di un contenuto e di una sua coerenza attraverso un altro, nuovo, flusso. Il nostro protagonista è Issei Sagawa, classe ’49, cannibale: nel 1981 invitò a casa sua a Parigi per un ripasso in letteratura inglese una sua compagna di studi, che finì per assassinare con un colpo di fucile e per mangiare 7kg dal suo corpo, partendo dal suo fondoschiena. Ottenuta l’estradizione in Giappone grazie al padre, Sagawa, dichiarato inabile e mentalmente infermo nonostante le sue sempre attive capacità intellettuali (ha scritto vari libri divenuti best seller, incluso un romanzo sulla storia vera di un serial killer di bambini di Kobe), è finito per passare 15 mesi in custodia e il resto della propria vita in piena libertà. Nel 2012 ha detto in un’intervista a VICE che per reprimere la sua tendenza all’antropofagia, che rischia di ritornare a causa della sua impotenza, lui sente di “dover morire”. Da anni vive con il fratello autolesionista come tutore, con un’infermiera, guardando pornografia e guardando il vuoto dalla sedia a rotelle che lo costringe all’immobilismo.
È un’esistenza triste. Castaing-Taylor e la Paravel sono andati a trovare Sagawa armati di macchina da presa, con il semplice obiettivo di filmare quel che sarebbe potuto capitare di fronte a loro. È un’improvvisazione, insomma, che lentamente ha ottenuto il compimento di una forma. La didascalia iniziale dice che non c’è alcun intento di giustificare i crimini del cannibale, e in effetti da questo punto di vista il film non delude. La prolissità e l’esasperazione nella dilatazione dei tempi filmici spesso diventa tanto ostentata da centrare in pieno il rischio del collasso e della boria, ma il difetto che parrebbe il più scontato per un film del genere è la pornografia del dolore e del reale, ed essa, più che essere evitata, è affrontata con la presa di coscienza di un dilemma la cui risposta è affidata pienamente alla soggettività degli spettatori: quanto può essere definito ipoteticamente pornografico un pezzo di cinema documentaristico basato sull’esposizione della sofferenza e della solitudine dei suoi protagonisti (tanto Sagawa quanto il fratello) nel momento in cui i protagonisti stessi concepiscono le proprie identità di fronte alla macchina da presa come oggetti pornografici? Sagawa mostra le pagine di un manga che ha scritto raccontando la propria esperienza di cannibalismo, con scarabocchi infantili mischiati a un crudo immaginario realistico e anatomico, in un gioco tanto inquietante quanto stranamente attraente; il fratello, invece, decide di propria sponte di mostrare alla macchina da presa i video dei suoi folli momenti di dolore auto-inflitto al braccio destro, tra coltelli, rash, candele, pettini metallici e addirittura fuochi d’artificio. Non è una realtà che diviene pornografica quando viene inquadrata, è una realtà che rimarrebbe pornografica da un punto di vista strettamente interno, cerebrale, d’anima, anche senza la macchina da presa, che diventa solamente un arnese aggiunto che aumenta l’aspetto cinematografico di questa determinata frazione di realtà – come se il feticismo sessuale, con tutto ciò che comporta, fosse una finestra all’interno del mondo, una messinscena di una presa di posizione che si crea da sola di fronte all’obiettivo.
L’astrazione del corpo umano è resa attraverso un gioco tra fuoco e fuori fuoco, tra campo e fuori campo – diventa quasi un gioco surreale, vista la concentrazione tematica e tonale sulla carne, sul suo colore, sul suo significato in questo meccanismo. I filmati di repertorio sull’infanzia dei due fratelli, i video dell’uno che soffre e i video pornografici visti dall’altro compongono un collage sulla video-dipendenza dell’infermità mentale. Solo corpi e volti, solo volti e corpi: la geografia spaziale è lentamente distrutta finché non v’è più una definizione di cosa è, all’interno dell’inquadratura, e di cosa, invece, non è. E invece di rendere meno agghiacciante o disturbante il fluire degli eventi (e dei non-eventi) attraverso il non-visto o il non-visibile, Castaing-Taylor e la Paravel finiscono per fare un lavoro opposto: questa distruzione dei limiti della nitidezza dell’immagine in realtà funge per rendere il tutto più crudele, meno umano. Il contatto umano e il pathos struggente del rapporto fraterno sembrano sfumare, lasciando spazio al colore della carne, che occupa l’inquadratura con la prepotenza di una malattia. È un film delirante, assurdo e difettoso, ma è anche un’opera fuori dal tempo, tanto legata al voyeurismo e alla pornografia nel cinema documentaristico, con le implicazioni morali della situazione, quanto al dare una nuova forma al documentario antropologico, una forma che si basi più sul tentativo di raffinare se stessa che non sul come mettere in scena un determinato contenuto. Senza la complessità del proprio approccio visuale, probabilmente, Caniba sarebbe stato solo una grande testimonianza, che è una cosa molto diversa da un grande film.
Nicola Settis