CAMPO (2018), di Tiago Hespanha
Sta tutto in una ben precisa immagine. In primo piano ci sono i soldati, che proni nel fango notturno del campo di tiro di Alcochete, la più grande base d’addestramento militare europea crocevia delle campagne pochi chilometri a sud di Lisbona, allenano la loro mira sui bersagli. Sullo sfondo, quasi a continuare la linea della sostanziale trincea, si staglia il treppiede che sostiene la macchina da presa, l’obiettivo al posto della bocca del fucile, il puntino rosso dell’indicatore di registrazione al posto della polvere da sparo delle piccole detonazioni. Tutti a cercare quel nemico che non c’è, quella simulazione di carta da guardare e perforare, immortalare e distruggere, e poi ancora riguardare e studiare al termine dell’esercitazione per capire come è andata, quanti e quali colpi sono andati a segno, quanti e quali fotogrammi sono stati “portati a casa”. Un parallelismo, o forse un vero e proprio cortocircuito, che va ben al di là della suggestione di quel termine inglese “to shoot”, valido sia per “sparare” sia per “girare”, che in questo Campo opera quarta del portoghese Tiago Hespanha presentata a Parigi al Cinema du Rèel 2019 a continuare i discorsi non solo produttivi del collettivo Terratreme mai viene apertamente messa sul piatto, ma rimane implicita al centro di ogni dissertazione e di ogni riflessione come un nucleo principale, come un postulato, come un motore, come un’anima. Così come ha del resto ramificazioni di significato pressoché infinite anche lo stesso termine Campo, identico in italiano all’originale portoghese, che lo fanno al contempo indicazione toponomastica e zona di guerra, inquadratura (o controinquadratura, o fuori inquadratura) e terreno di gioco su cui praticare gli sport di squadra, luogo d’allenamento e settore di specializzazione. Significati tutti etimologicamente riconducibili al verbo “capere” latino per dire “catturare”, in un continuo passaggio di sfumatura, di accezione e di semantica che però mai cambia realmente il senso più profondo della radice del termine, il suo concetto di “prendere”. Combattendo, osservando, registrando, giocando, esprimendosi, convincendosi: poco cambia, sempre di un “fare proprio” si tratta. Dal prepararsi per le storiche contese in Campo Marzio alle odierne passeggiate romane in Campo de’ Fiori, dalle sfide calcistiche sui campi di tutto il mondo agli spritz veneziani in Campo Sant’Angelo, dai praticelli di campagna all’urbanistica medievale, dal puro empirismo fenomenico del campo visivo al campo extrasensibile dell’inventiva e dell’immaginazione, fino all’eterno ritorno ai campi d’addestramento militare in cui prepararsi, allenarsi, simulare la guerra. Mentre, intorno ai soldati, la vita tenta spesso invano di procedere normalmente. Gli animali continuano a pascolare ma a volte muoiono forse avvelenati o infettati dalla stessa base militare, gli ornitologi osservano, ascoltano e registrano quella natura che l’uomo bellico e violento invece sfida e progressivamente distrugge, gli apicoltori raccolgono cera e miele classificando gli alveari in estinzione, mentre gli alberi, sugheri scuoiati e pini sulla collina, vengono abbattuti rivelando la loro età con gli anelli di crescita. Gli astronomi guardano la volta celeste incarnando la naturale tensione umana verso l’infinito, gli appassionati di modellismo fanno decollare e guidano da terra i propri aeroplanini, e i bambini prodigio suonano il pianoforte immaginando di musicare quelle battaglie galattiche che sono l’immaginario punto di congiunzione e sintesi fra i videogiochi, i film di fantascienza, l’occhio telescopico dell’osservatorio e le esercitazioni dei soldati: tutti con lo sguardo verso il cielo, tutti a tendere verso l’alto, come natura umana (non) prevede(rebbe). Perché Alcochete, il Campo, nient’altro è che la finzione di continue missioni immaginarie, ma al contempo è anche la realtà quotidiana di fatica, tensione, sudore e non così raro sangue dei soldati, attori nel ruolo di se stessi in un quotidiano vivere simulando ciò che non c’è e che si spera mai ci sia, ma per cui devono essere sempre pronti. Tanto che quella macchina da presa, fuori fuoco nel suo secondo piano in fondo al plotone di reclute che sparano eppure protagonista quanto ciò che inquadra, smetterà ben presto di cercare la differenza fra l’osservazione documentaria di una finzione e la vera e propria messa in scena di un film di guerra, scegliendo invece di immergersi nel microcosmo che ha di fronte, piccolo paradigma del mondo nel suo eterno mutamento di uomini e animali in cui, come in una sorta di vita/cinema fatta di carne, interessi, capacità, quotidianità e sudore, la simulazione e la realtà convivono camminando a braccetto sul filo dell’ambiguità. Un po’ come quando l’uomo, sin dalla mitologia nato debole e indifeso per capriccio degli dei che volevano divertirsi nella loro altrimenti noiosa eternità, a furia di sopperire con l’intelligenza e la tecnologia alla sua mancanza di armi naturali ha scoperto la narrazione per racchiudere il suo senso nelle storie. Immaginandole, raccontandole, sognandole e vivendole. Fino al rovescio della medaglia di non saper più distinguere il vero dal falso.
È la voce fuori campo a guidare lo spettatore in questa evocativa immersione cosmogonica, così ellittica e suggestiva nella sua osservazione, nel suo sguardo, nei suoi raccordi di montaggio fra il senso e l’attrazione, nelle sue silhouette umane e animali, nelle sue eleganti inquadrature fisse, nei bagliori del suo sole cocente e nell’ostentata oscurità degli istanti notturni illuminati di taglio. Una voce che viene da lontano, dal vuoto, dal caos, dalla nebbia che nasconde gli alberi e che trova l’incarnazione della sua fitta trama nella lana delle pecore, quasi come se fosse una nuova Creazione, la genesi di un nuovo mondo dall’indefinito alla materia, dalla cortina di fumo alla carne, dal trascendente alla più pura immanenza. Dal mito alla scienza, passando per la Storia, per la linguistica etimologica, per l’aneddotica, per l’ambiguità fra realtà e finzione e per l’eterogeneità del materiale umano e dei riferimenti culturali che Tiago Hespanha costantemente interroga. Dagli dei onnipotenti delle più antiche credenze direttamente all’uomo che ha conquistato il cielo, e che dal cielo può ora paracadutarsi ovunque voglia. Per tornare ancora agli animali, che vivono, mangiano, producono, partoriscono i piccoli e li guardano mentre per la prima volta si alzano per camminare, ancora madidi di sangue e placenta, verso la propria esistenza, verso il proprio personalissimo infinito. Quegli stessi animali che per primi hanno viaggiato nel cielo con il primo pallone aerostatico – altra sfida dell’uomo alla natura che non gli permette(va) di volare – realizzato per il re dai fratelli Montgolfier, i quali preferirono un tacchino, una papera e una pecora ai criminali proposti per la prova di un’invenzione che, a sua volta, era al contempo la razionalità di una cognizione tecnica che tramite il principio di Archimede aveva saputo sfruttare l’aria calda come corrente ascensionale e l’istintualità dell’atto creativo dell’uomo, che realizzando uno dei suoi sogni più ancestrali da quel momento aveva trovato, dall’alto, il suo nuovo punto di vista sul mondo. Utilizzando, per librarsi in volo, proprio quel fuoco che, incurante dell’ira di Zeus e del supplizio che gli sarebbe toccato, Prometeo nella mitologia greca rubò agli dei e donò agli uomini, permettendo alle innovazioni tecnologiche di supplire alla mancanza di quelle qualità naturali che il fratello Epimeteo, dimenticando gli esseri umani, aveva distribuito solo fra gli animali. Ed è proprio qui, nei simboli che ridiventano materia, che si specchiano l’astratto nel concreto e il concreto nell’astratto, proprio come costantemente si specchiano vero e falso, uomo e natura, quotidianità e messa in scena, nel campo di tiro di Alcochete. C’è la pura razionalità che vede il blocchetto degli appunti sul quale segnare ogni variazione di vento e di condizioni come principale arma del cecchino, c’è l’interesse scientifico di chi guarda le stelle e si sente minuscolo in un universo del quale sappiamo di non essere (più) al centro, c’è la rigorosa meticolosità di chi osserva gli animali per capirne l’istinto e i comportamenti, c’è l’intimità dell’immaginazione che diventa estro e talento musicale in mezzo al fischiare dei proiettili e all’organizzazione delle cerimonie militari. E poi c’è la finzione “reale” di chi si allena per combattere, ci sono i rumori delle armi e delle esplosioni – magari di una porta nel vuoto – incapaci di disturbare fino in fondo il microfono dell’ornitologo, c’è un paesaggio che costantemente si modifica fra i “set” in cui addestrarsi e l’avanzare del disboscamento, e soprattutto ci sono la vita e la morte in un costante inseguirsi, in un costante cercarsi, in un costante sovrapporsi e dissolversi. Come quella pecora incinta che muore nel tentare invano di dare alla luce il suo agnello, fra gli sforzi del fattore che dovrà arrendersi ad averli persi entrambi, o come quel soldato in passamontagna “colpito” nella rappresentazione di guerra dell’addestramento che giace supino a terra, ma solo in attesa dell’ordine di rialzarsi, con la cassa toracica che si gonfia vistosamente a ogni respiro, con la vita della realtà che, attraverso la recita e quindi la finzione, evoca la morte per poterla sconfiggere. Come se fosse un modo per esorcizzare la paura, un prendere lo spauracchio e renderlo effimero, inefficace, provvisorio, confinato a un istante, a una simulazione, a un gioco. Ma la morte non è un gioco, così come non lo è la guerra, così come non lo è la natura, così come non lo è la convivenza nel giro di pochi chilometri di due distinte umanità, quella civile e quella bellica, quella che cerca, ama e cura l’arte e l’ambiente, e quella che invece preferisce minacciarle, attaccarle, sacrificarle alla necessità militare. Due umanità in conflitto, eppure parte dello stesso concentrato di mondo, dello stesso ambiente, dello stesso doloroso crepuscolo. E non saranno certo i fuochi d’artificio che salgono colorati lungo la costa a poter riportare la luce. Forse, però, può farlo il cinema. Con i suoi linguaggi, con le sue illusioni, con il pianoforte suonato dal bambino che copre la musica della banda della marcia militare per poi rubare loro anche il Campo, l’inquadratura, il visibile. È il primo passo verso una riappropriazione?
Marco Romagna