Piacerà a molti, Call me by your name. Piacerà, perché Luca Guadagnino, palermitano di nascita, è ormai a tutti gli effetti un regista americano, e gli stereotipi del quale Call me by your name è infarcito nel suo vagare per il nord Italia del 1983 tenendo come sfondo il Compromesso Storico di Craxi e la “fuga” di Licio Gelli, le Fiat 128 e “Radio Varsavia” di Franco Battiato che, in maniera sibillina quanto sacrilega, passa per radio, i busti ancora affissi di Mussolini – quasi una sorta di controcampo se possibile ancor più fastidioso rispetto a Falce e Martello che campeggiavano tatuati sul petto conservatore di Ralph Fiennes in A bigger splash – e le “profetiche” apparizioni televisive di un giovanissimo Beppe Grillo già pronto a scagliarsi contro le ruberie della Prima Repubblica, sono esattamente quelli che il pubblico straniero vuole trovare in un film quando si parla dell’Italia. E piacerà, come già a Berlino sta piacendo molto, anche a tanta parte della critica italiana, che dai tempi del pessimo Io sono l’amore si è inspiegabilmente convinta che la presunzione di un mediocrissimo metteur en scène nel sentirsi Ejzenstejn in raccordi di montaggio senza senso alcuno fosse il segnale della nascita di un grande autore, finendo in alcuni casi persino per rivalutare il lavoro precedente, l’impresentabile Melissa P., e le sue dilettantistiche inquadrature che evitano la pornografia rimanendo giusto un paio di centimetri sopra ai tanti membri maschili con cui ha a che fare la protagonista.
Al di là della totale anaffettività con cui Luca Guadagnino costruisce una storia d’amore e di corpi che mai, nemmeno per un secondo, riesce a intenerire o a trasportare dal punto di vista emozionale – il che, a pochissimi giorni dalla sublime poetica umanissima e lacrimata di Ildikó Enyedi e del suo On Body and Soul, scava un segno profondissimo e invalicabile fra emotività e ammiccamenti, fra sensibilità e cliché, fra poesia e mediocrità furbetta –, forse ciò che più infastidisce di Call me by your name è la sua posizione profondamente borghese e autoreferenziale, nella quale la ricca famiglia protagonista, ebrea residente in Italia ma “cittadina del mondo”, ostentatamente intellettuale e poliglotta nel padre americano e nella madre francese, costantemente immersa nei propri libri, nei propri pianoforti sui quali varia Bach e nel proprio invitare a pranzo i ricchi ospiti più improbabili, risulterebbe alla fin fine, proprio a causa della sua cultura che apre la mente continuamente sbandierata come fosse un album di figurine, l’unica possibile depositaria di un reale ideale di progressismo pronto a convergere nell’accettazione silente e anzi quasi invidiosa di “quella bellissima amicizia” che è l’omosessualità del figlio in una società non ancora pronta a cotanta tolleranza. Un’omosessualità che, per Elio, deflagra nell’estate dei suoi 17 anni, l’età della scoperta e dei baffetti da radere, l’età delle continue erezioni e della formazione della propria identità sessuale, l’età delle continue masturbazioni e – sfiorando il ridicolo involontario – delle “prove” a guisa della più celebre American Pie usando un frutto. Un’omosessualità scoperta passando prima per la dolce francesina amica di una vita e scambio di verginità (interpretata, altro sacrilegio, dalla venticinquenne Esther Garrel figlia di Philippe e sorella di Louis, una famiglia che di romanticismo, ma quello “vero”, dovrebbe saperne qualcosa…), per rendersi conto che il vero desiderio non è verso di lei, ma verso lo studente invitato dal padre per lavorare alla tesi nella ricca villa di famiglia che sorge da qualche parte nelle campagne bergamasche.
Call me by your name è il telefonato coming of age (etero/omo)sessuale di Elio, impegnato a scoprire corpi – il proprio ma soprattutto quelli degli altri, quello di lei, quello di lui, quello del bronzo che viene pescato dal Lago di Garda – nell’estate in cui l’adolescenza vira in qualcosa di diverso. Già ai tempi della promozione del precedente A bigger splash, film per molti versi estremamente problematico eppure difendibile per via della sua estrema libertà, Luca Guadagnino aveva annunciato di aver intenzione di trarre la vicenda del giovane alla ricerca della propria identità sessuale da Chiamami col tuo nome, romanzo del 2007 di André Aciman, carpendo le suggestioni cinematografiche da Ai nostri amori, film francese del 1984 diretto da Maurice Pialat. Con la differenza, produttiva ma sostanziale a livello di credibilità, che nel libro la villa di famiglia era in Liguria, mentre Call me by your name, con quasi 3000km di coste a disposizione in giro per l’Italia, non ha trovato nulla di meglio che rinchiudere un’intera famiglia e stranieri d’ogni sorta a trascorrere le vacanze estive nel cuore torrido e umido della Pianura Padana. Scritto in collaborazione con James Ivory, del quale forse non a caso i migliori lavori sono stati sceneggiati da altri (su tutti, Camera con vista e Casa Howard vedono gli script a firma di Ruth Prawer Jhabvala), Call me by your name mette in scena un protagonista di cui non riesce a porsi come educazione sentimentale, ma solo sessuale, fra continui sguardi e ammiccamenti, incroci di piedi nudi e di baci contro i muri, mani nelle mutande, materassi, bagni in piscina, al fiume o al lago, voglie e ambiguità nel capire quale sia la vera attrazione.
Rispetto ai lavori precedenti, lo stile di Guadagnino è questa volta, fortunatamente, più cauto e asciutto, i “suoi” raccordi di montaggio si limitano a pochi istanti di sofferenza, e al di là di una sequenza onirica virata in negativo e ai limiti dell’inguardabile, tutto sommato visivamente il film tiene. È nella messa in scena, però, che pur con una produzione internazionale non certo low budget emergono ancora una volta i soliti problemi del regista, fra continui e ingiustificati scavalcamenti di campo quasi come se non sapesse dove mettere la macchina e al montaggio si trovasse solo con riprese tecnicamente “sbagliate”, approssimazioni nelle inquadrature e nella costruzione anche del set – si prenda come esempio l’acqua che scorre sui vetri mentre fuori dovrebbe piovere, e per quanto il regista giuri che si tratta di vera pioggia l’effetto sullo schermo rimane quello di una manichetta aperta –, una gestione a volte discutibile del multilinguismo fra i poliglotta della famiglia e, soprattutto, l’incapacità di creare reale empatia con quella che vorrebbe essere una tenera storia d’amore e di malinconia, e che invece finisce per girare stancamente per due ore e un quarto intorno a una poetica da Baci Perugina, dal gioco degli amanti a dimostrarsi passione con uno scambio dei nomi, “Chiamami col tuo nome”, fino alla telefonata finale e invernale di eterni pensieri ma di parallelo annuncio di matrimonio, al termine della quale il film si chiude su un lungo primo piano di Elio senza che i suoi occhi gonfi di lacrime riescano però a esprimere qualcosa che non sia la sensazione di aver assistito a un film estremamente disonesto. Un film stereotipato nei suoi libri e fastidiosamente furbo nell’autogiustificarsi per il suo pressapochismo citando Buñuel per mescolarlo con gli eventi della storia italiana, un film borghese per borghesi che hanno bisogno di sentirsi la coscienza a posto, un film che non ama ma si limita a raccontare con stile discutibile e sostanziale indifferenza umana. Un film del quale avremmo fatto volentieri a meno, anche se siamo consci di essere fra le poche voci fuori dal coro. E a questo punto il nuovo Suspiria, remake (perché?) del capolavoro di Dario Argento attualmente in post-produzione e in uscita fra pochi mesi, fa ancora più paura, e non certo per il suo ambito horror.
Marco Romagna