CALIFORNIE (2021), di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman
È passato poco più di un mese dal brillare della storica medaglia di bronzo olimpica al collo Irma Testa. Una giovane donna del ’97 partita da Torre Annunziata per spaccare a pugni il mondo, prima pugile italiana di sempre a compiere da appena diciottenne l’impresa di qualificarsi per i cinque cerchi di Rio, e ora conclamata campionessa che cinque anni dopo, nella rinviata edizione di Tokyo, ha portato a definitivo compimento un miracolo sportivo che forse nemmeno il cinema potrà mai eguagliare. Nessuno poteva essere sicuro che ce l’avrebbe davvero fatta, a tornare a casa medagliata, nemmeno la stessa atleta nel suo talento e nella costanza dei suoi duri allenamenti, eppure forse in qualche modo la ancor più giovane Khadija Jaafari già se lo sentiva, che il percorso della sua personale eroina sarebbe andato a finire così, sempre più proteso verso la gloria. Ci credeva, ciecamente, nel sogno di seguire le sue orme. Aveva solo nove anni quando incrociò per la prima volta Alessandro Cassigoli, Casey Kauffman e le loro macchine da presa, impegnati a seguire a metà strada fra il documentario e qualche pennellata di recitazione di se stessi la Butterfly Irma nella palestra torrese di Lucio Zurlo. Una bambina determinata, con il fondo dello sguardo impregnato di un personalissimo fuoco interiore, con un passato da riguardare con malinconia e un futuro ancora tutto da scrivere nello scorrere del tempo. Non è certo un caso che Californie inizi come si era chiuso Butterfly, nella stessa palestra con gli stessi esercizi, con la bambina che guarda Irma Testa e con Irma Testa che la incoraggia. Eppure questa volta si sono ribaltate le percentuali, nel cinema di Cassigoli e Kauffman. Non più qualche elemento di messinscena a puntellare l’osservazione del documentario, ma quasi al contrario un percorso che parte dal contesto reale e dal vissuto dei non-attori per scrivere, mettere in scena e interpretare una vicenda di pura finzione, il più possibile lucida e paradigmatica nel delineare un ben preciso luogo e una ben precisa porzione sociale, ma pur sempre immaginaria nei suoi personaggi e nel suo intreccio di fantasia. È per questo che la Khadija incontrata nella realtà in palestra diventa sullo schermo la fittizia Jamila, come Khadija arrivata dal Marocco e ben integrata nella sua parlata napoletana, come Khadija appassionata tanto di boxe quanto di acconciature, come Khadija risoluta e ‘maschiaccio’ nell’indipendenza e nel rifiuto delle imposizioni, eppure frutto dell’invenzione cinematografica nelle scelte e nelle aspirazioni, negli incontri e nei sotterfugi, nei rapporti umani e nei dialoghi. Un alter ego con cui procedere a braccetto, e con cui da bambina ritrovarsi ragazza su un sentiero lungo quattro anni (a blocchi) di riprese da qualche parte fra il Linklater di Boyhood e il cinema “familiare” e di fiducia di Jonas Carpignano, dopo altri due di preparazione in attesa che la giovanissima protagonista fosse pronta per recitare e crescere di fronte all’obiettivo.
È prima di tutto un film sul tempo, Californie. Il tempo che passa e che dall’infanzia porta all’età adulta, in una corsa che dagli undici ai quattordici anni modifica progressivamente il corpo e i capelli, porta a maturità il giudizio e le aspirazioni, vede cambiare le necessità e i rapporti umani mentre brucia le tappe dell’adolescenza. Prima la passione ancora fanciullesca per la boxe, la commozione davanti al ring, la costanza nell’allenamento, poi la voglia di indipendenza, i primi lavoretti per il sogno di tornare in Marocco, il cellulare scroccato alla sorella più grande, e dopo ancora lo sviluppo, il motorino (elettrico e a pedali, unico modo per sfrecciare senza patentini e senza casco prima del compimento dei quattordici anni), i primi desideri e l’illusione di aver trovato una stabilità in quel lavoro per il salone di parrucchiera che sfrutta senza rispettare nemmeno la scuola dell’obbligo, fino all’affrancarsi salendo su un pullman per Cosenza – ma potrebbe essere ovunque – finalmente libera e con un impiego già in tasca, definitivamente proiettata verso il futuro. Una traiettoria che Cassigoli e Kauffman restituiscono nelle Giornate degli Autori annesse alla 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel rigore di un 4/3 che si dischiude sullo sbocciare di una giovanissima donna in un’ambientazione nella quale «dopo vent’anni di Don Matteo nessuno si è fatto prete ma dopo quattro stagioni di Gomorra sono diventati tutti camorristi», affiancando ai reali cambiamenti di Khadija quelli immaginati in Jamila nelle varie fasi di un doppio lento scoprirsi, della persona e del personaggio, interiormente e nella società. Ci sono le passioni tanto totalizzanti da venire ben presto abbandonate e ci sono le più radicate convinzioni che si riveleranno errori di valutazione, ci sono i selfie e ci sono i video per i social, ci sono le quotidiane conquiste e ci sono le agrodolci (dis)illusioni, ci sono telefonate chilometriche forse neanche vere e ci sono appuntamenti a cui non (riuscire a) presentarsi. C’è la lotta quotidiana per l’integrazione, fra una casa poverissima con una sola stufa, un padre appena tornato in Marocco e una dignità da riconquistarsi nelle difficoltà economiche e nelle incomprensioni di una città. E soprattutto ci sono le età che cambiano come i look, le idee e i tormentoni, in quattro capitoli di costante farsi e ridiscutersi alla ricerca di una propria definitiva personalità, di una propria definitiva autonomia, di una propria, questa volta non necessariamente definitiva ma definitivamente personale, esistenza. Lontana da quell’errore ortografico compiuto dall’autore dell’insegna del negozio di parrucchiera, che si sarebbe dovuto chiamare California e invece si ritrova con quel ridicolo nome declinato al plurale, eppure per sempre legata a una tappa così fondamentale della sua formazione. Come è una tappa fondamentale la palestra, sono una tappa fondamentale quelle prime teste lavate, è una tappa (anche dialettica) fondamentale il primo taglio clandestino, sono una tappa fondamentale le incomprensioni in famiglia con la madre e la sorella, e a suo modo è una tappa fondamentale anche il rifiuto della scuola. Basterebbe il dialogo con l’assistente sociale, quando l’esuberanza diventa imbarazzo, quando la flagranza diventa senso di colpa, quando la giovane che già si sente adulta torna a essere una ragazzina ancora minorenne, messa di fronte alle sue ingenuità e all’ultimo gradino da superare per essere finalmente la donna che sarà. Finalmente pronta per abbandonare definitivamente gli egoismi, per capire come ogni posto nel mondo sia indissolubilmente legato agli altri e alla generosità, per rendersi conto di come sia l’affetto l’unico possibile motore della vita. La gioia incommensurabile di fare una sorpresa alla madre, usando i primi stipendi per fare un regalo a chi si ama. Forse è questo, l’unico vero modo per scoprirsi finalmente grandi.
Marco Romagna