CALABRIA (2016), di Pierre-François Sauter
Fra la serenità elvetica di Losanna e il sole cocente di Gasperina, piccolo paesino sulla costa jonica in provincia di Catanzaro, ci sono 1494 chilometri, una dogana, le montagne, le campagne e poi ancora il mare: bisogna attraversare perpendicolarmente tutta la piccola Svizzera e poi, da nord a sud, quasi l’intero Stivale, dalla Val D’Aosta fino alla Calabria passando per Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Lazio, Campania e Basilicata. Una distanza non da poco, che attraversa climi, lingue, accenti, modi di porsi, paesaggi opposti, forse mondi; una distanza risibile, quando a doverla percorrere sono lo spirito di appartenenza, la memoria, le radici. Di questo parla Calabria, opera seconda di Pierre-François Sauter che trova il concorso al DocLisboa 2016 dopo i passaggi a Nyon in Visions du Réel e a Locarno in Panorama Suisse, trasformando il viaggio di ritorno “a casa” della salma di Francesco Spadea, calabrese nativo di Gasperina trapiantato in Svizzera, in un documentario/road movie atipico in cui due impiegati delle pompe funebri – anch’essi immigrati interni europei, un ex-cantante e sognatore serbo e un materialista portoghese – alternandosi alla guida si scopriranno e confronteranno, facendo emergere il loro senso comune di smarrimento di fronte al rischio di perdere la propria lingua, la propria casa e la propria cultura. Jovan e José non hanno idea di chi fosse l’uomo nel portabagagli del loro lussuoso carro funebre, ma scopriranno gradualmente che la loro scelta della Svizzera per ripartire senza guardarsi indietro, in realtà, nient’altro è che una fuga illusoria, perché le radici prima o poi si ripresentano, e in questo senso il loro rapporto con lo sconosciuto Francesco Spadea diventa un’appartenenza quasi simbiotica, mentre la sua morte l’occasione per una rilettura intima ed esistenzialista del proprio passato, del proprio presente e del proprio futuro.
Calabria inizia dopo la fine, quando Francesco Spadea è un semplice cartellino appeso all’alluce in obitorio a Losanna, in quella Svizzera che ha accolto l’immigrato calabrese senza forse però riuscire mai a farlo sentire davvero a casa. La sua ultima volontà è chiara, essere riportato a Gasperina per essere inumato nella sua terra, fra i suoi affetti, pianto dai suoi cari rimasti a casa – un ritorno al paese natio, alle radici mai abbandonate, ai ricordi più profondi. Quelle stesse radici che si ritroveranno a mettere in discussione i due impiegati delle pompe funebri incaricati di preparare la salma e poi trasportarla con il carro fino dalla Svizzera alla Calabria. Il portoghese José e il serbo Jovan sono entrambi residenti e impiegati a Losanna, uno emigrato per fame, l’altro per amore. Ma nessuno dei due, al pari dell’occupante della bara che trasportano nel carro funebre, ha davvero mai dimenticato le proprie origini, la propria lingua, i propri usi e costumi, i propri piatti tipici: la propria terra, la propria appartenenza. La regia di Pierre-François Sauter è tanto discreta, rispettosa e riflessiva in obitorio quanto essenziale e posata su un road movie costruito sostanzialmente su sei inquadrature: i due camera car sui protagonisti; il piano a due in cui l’immagine, costituita dallo split screen dei due camera car, diventa anamorfica; l’interno “tarantiniano” del portabagagli verso la cassa; in avanti dalla cassa verso la cabina di guida con un totale dei guidatori e della strada e, ultima, la strada senza cornici. A partire dal titolo, Calabria è apparentemente un film di luoghi, in cui la geografia diventa storia personale e metafora stessa del viaggio come scoperta e cambiamento, ma quello che interessa al regista, nel percorso geografico ed esistenziale dei due becchini, è piuttosto il loro smarrimento, ed ecco che quindi i paesaggi vengono ridotti al minimo, e quasi tutto il film si svolge dentro la macchina, con l’autostrada che scorre come fosse un passaggio desertico e le aperture verso l’esterno che si limitano per lo più – escluso un passaggio sui ghiacci montani e una spiaggia notturna deserta a Follonica – quasi esclusivamente agli autogrill e agli alberghi.
Fra la terra madre e quella di adozione, qual è la vera casa? Calabria è una ricerca dell’Heimat, è una volontà di scoprire, è una mano tesa verso la propria appartenenza, un viaggio che attraversa due Stati europei per tentare di penetrare l’anima cosmopolita ma smarrita dell’Europa. Come quando il Tom Tom, al pari delle bussole interiori dei personaggi, inizia a impazzire, spedendoli su strettoie di montagna in cui la station wagon di cinque metri ha enormi difficoltà a inestricarsi, il film di Sauter procede nel suo viaggio che è forse la stessa ragione dell’atto di viaggiare: scoprire, stupirsi, interrogarsi, essere finalmente sinceri con se stessi e con gli altri. Percorrendo la A1 in direzione Napoli, si passa da Roma senza vedere Roma, con la bretella che passa interna saltando a pié pari le diramazioni Nord-Sud e il Grande Raccordo Anulare, e allo stesso modo Calabria si fonda sui luoghi ma li lascia il più possibile fuori campo, facendo in modo che il loro scorrere sia piuttosto nelle reazioni emotive di chi sta viaggiando, dall’inverno all’estate, dalla neve al mare, dalla bara alla frutta, dalla morte alla vita, passando per qualche sporadico incontro, accenti che mutano e fotografie scattate dall’auto in corsa. La Mercedes in viaggio per i suoi 1500 chilometri diventa un lussuoso divano sul quale psicanalizzarsi, mentre José e Jovan entrano timidamente nel proprio passato, si confessano segreti, aprono gradualmente alla propria intimità. Jovan, ancora votato alla musica, crede nella vita dopo la morte, e che la salma sia una sorta di angelo custode, uno spirito guida che gli permetterà di completare il viaggio senza intoppi. José, dall’altra parte, crede solo in quel che vede, è più pragmatico, ma anch’egli è perso in una nebbia esistenziale che lo porta a essere sospeso fra le radici che fanno capolino nella sua vita e l’accettazione serena della propria vita di immigrato. Sono due anime sospese sul ciglio dell’oblio, che riusciranno in questo viaggio a riscoprirsi, liberare i fantasmi del passato, riscoprire la natura, le sue meraviglie, i suoi sapori, fino a quelle bottiglie d’acqua di mare, riempite a costo di buttare via i vestiti, come un simulacro da riportare a casa, come un simbolo del loro viaggio geografico e interiore, come un segno della loro raggiunta serenità e umanità, mentre al posto della bara c’è ora una cassa di prodotti della terra, pomodori, frutta, bontà: vita.
Marco Romagna