Woody Allen apre ancora una volta – come cinque anni fa con Midnight in Paris – il Festival di Cannes.
Lui, il maestro, dovrebbe aprirli a vita, i festival. Soprattutto questo festival, cui piace specchiarsi, piace vedere le luci della ribalta (delle ribalte, ce ne sono tante, qui) riflesse nei lustrini, piace anche il mondo chiaroscurale, fatato ma intimamente malinconico, delle star, dei loro amori, dei loro tradimenti.
Tutto un immaginario che appartiene a un’epoca antica, perduta, del secolo scorso ma che sembra di secoli fa: l’epoca d’oro di Hollywood, degli Studios, e di chi ci lavora (attori e attrici, ma anche faccendieri di diversa specie, per non parlare dei produttori, che erano poi quelli che davvero tenevano i fili dell’aureo teatro di preziosissimi burattini). Abbiamo già visto qualcosa del genere, quest’anno, no? Hail, Caesar! dei fratelli Coen è un folgorante ma scanzonato omaggio a certi vizi e a certe virtù, a certi paesaggi e a certa iconografia, squisitamente losangelini: i colori pastello delle alte pareti degli studi, i cieli che sono di un blu che solo a Los Angeles trova il tono giusto, le spiagge, le ville delle star.
Woody Allen usa questi ingredienti in Cafè Society e cala in questo calderone un ragazzo per bene, Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg, di cui sappiamo la bravura e che si candida a nuovo e stabile alter ego del regista), che si allontana da New York e da una famiglia quanto meno singolare, con tanto di fratello gangster: la madre Rose chiama il fratello Phil (Steve Carell, uno dei più grandi attori del momento, sempre diverso, sempre encomiabile, sempre se stesso, ma sempre profondamente il personaggio di cui veste i panni), agente di attori, per trovargli un lavoro. Bobby va dallo zio, che lo riceve dopo settimane, e lo affida alle cure della segretaria Vonnie (Kristen Stewart, ormai attrice vera e di grosso calibro, dopo Sils Maria di Assayas, e che rivedremo ancora in Croisette in Personal Shopper, del medesimo regista). Bobbie si innamora di Vonnie, e da lì nasce una serie di vicende umane e sentimentali che non vi sveliamo perché, dopo tutto, il film è proprio lì, fra loro due…
Possiamo forse sorvolare sulla grazia infinita che investe il film: i film di Woody Allen hanno un’allure proprio, li si riconoscerebbe fra mille non per un movimento di macchina, non per soluzioni di montaggio di sopraffino virtuosismo, non per marche di regia dichiarate. I film di Allen, forse, chissà se esageriamo, hanno un’aura. Hanno una specie di gruppo sanguigno esclusivo, più unico che raro, e questa peculiarità, che tanto lo fa amare a noi come a tanti altri, lo rende inviso invece a qualcun altro, che lo accusa di stanchezza, di pigrizia.
Ma invece, sia che si tratti dell’uomo irrazionale che sogna il delitto perfetto o di un ragazzo che cerca l’amore perduto nella Hollywood degli anni ‘30, si tratta sempre di capitoli nuovi, e mai simili l’uno all’altro, di una inestimabile commedia umana, che in futuro forse manderemo nello spazio. A dirla tutta, il film ci è parso avesse un momento di stanca all’inizio dell’ultima parte, diciamo l’ultima mezz’ora, quando si rivede (non diciamo perché) la città di New York. Ma la prima ora e il finale sono di un livello talmente alto che una transizione, seppur lunga, la si comprende, e perdona: fra le scene che più abbiamo amato, il tour delle case degli attori in cui Vonnie conduce Bobbie, una specie di declinazione alleniana della “map to the stars” che altri registi avevano, invece, sublimemente macchiato di sangue…
Due parole sulla fotografia di Vittorio Storaro, che pare abbia tenuto banco in conferenza stampa: la sua cinematografia (la prima volta per Allen in digitale, con Sony CineAlta F65) ha alcuni episodi memorabili, per esempio la scena della cena a lume di candela fra Bobbie e Vonnie, ma nel complesso non ci ha entusiasmato: preferiamo un uso della luce meno esibito, meno baroccheggiante, ma che raggiunge con più discrezione i medesimi risultati. Pensiamo a Darius Khondji, per esempio, sodale di Allen, molto più vicino lui alle atmosfere e alle patine di Gordon Willis.
Elio Di Pace