CADET (2024), di Adilkhan Yerzhanov
Basterebbero i (tanti) suicidi con i coltelli come un rituale in odor di samurai, o l’ironia tagliente che emerge dal poliziotto un po’ fuori giri, o ancora il sostanziale teatro dell’assurdo con cui le alte sfere dell’esercito bollano meccanicamente montagne di carte senza proferire parola alcuna, o più in generale il continuo giocare a espandere e intrecciare le possibili forme e declinazioni del cinema di genere, perché l’immaginario di Adilkhan Yerzhanov possa ancora una volta lasciar trasparire l’influenza meravigliosamente imprescindibile di Takeshi Kitano, da tutta la carriera principale fonte di ispirazione dell’autore kazako. Eppure questa volta è evidente sin dalla spessa coltre di neve che sostituisce le consuete steppe polverose come Yerzhanov, spostando l’occhio della sua macchina da presa nel minuscolo e remoto villaggio di Karatas ma soprattutto verso i territori linguistici dell’horror postmoderno, con Cadet voglia più che mai scartare verso altre forme e differenti testi di riferimento, guardando apertamente a Stanley Kubrick per cercare un interstizio nel quale lasciare liberamente flirtare Shining con Full Metal Jacket. Attraverso una nuova declinazione del Sergente Maggiore Hartman, qui fallocratico e violento direttore della «migliore Accademia militare» del Paese nostalgico dell’URSS e bellicista convinto che solo saper uccidere renda uomini, attraverso il bullismo dei compagni/commilitoni appena il giovanissimo Serik entra con modi troppo gentili e capelli troppo lunghi per poter tenere testa al branco di esaltati, attraverso la violenza che esplode non certo a caso nei bagni. E poi con i (letterali) fiumi di sangue, con le apparizioni ectoplasmiche, con gli infiniti corridoi e con le mille stanze dell’Accademia, perfino con le fotografie finali alle pareti. Con il (grande) cinema, che sceglie che cosa mostrare e che cosa non mostrare, che sa distillare pura angoscia da un’ombra subliminale o da un ardito raccordo di montaggio, che sa costruire atmosfere e tensione fra l’oscurità di una fotografia necessariamente slavata e l’eccellente uso disturbante delle musiche a cura dell’italiano Sandro Di Stefano per poi, prendendosi il sano diritto di depistare e di stupire, divertirsi a premiare oppure a tradire le aspettative dello spettatore. In un film di fantasmi, di ritorni, di possessioni, di voci, di visioni da qualche parte fra il campo e il fuoricampo che diventano dubbi forse insolubili costantemente sospesi fra la razionalità e il paranormale, mentre nell’eccellenza scolastica e militare di un borgo di nemmeno 500 anime quasi al confine con Uzbekistan e Kirghizistan il Male ritorna a intervalli regolari come un virus destinato a propagarsi e a mietere le sue vittime, con tutta la sua violenza, con tutta la sua ineluttabilità, con tutta la sua sete di sangue, con tutta la sua totale mancanza di amore. Eppure forse non esiste nulla di più lontano dal Bene dell’Accademia in cui, su raccomandazione del padre biologico del bambino, altissima sfera dell’Esercito disposta ad aiutare da lontano la madre sola per coprire il proprio stupro di qualche anno prima, Alina e il piccolo Serik entrano sin dall’incipit del film come insegnante e come cadetto. Un luogo nel nulla il cui scopo è trasformare ragazzini in macchine da guerra. Un luogo basato sì sulla disciplina ma soprattutto sulla mascolinità più tossica, sulla misoginia, sulla discriminazione del «diverso», sull’omologazione, sulle minacce, sulla violenza, sulla corruzione sistemica, sulla burocrazia più folle, sulla più pura paranoia. E poi sull’esaltazione bellica, sul bullismo, sulla prevaricazione dei più forti sui deboli, sull’omicidio – occido ergo sum – come unica possibile affermazione individuale. Tanto che il ritorno ogni quattordici anni del maligno, a ben vedere, in realtà nient’altro si rivelerà che la vendetta di quattro ragazzi le cui ossa sono ancora sotterrate in cantina, e che si servono di un’altra vittima (e degli scatti “mortali” della sua penna, con cui sembra ipnotizzare e controllare chi si sta suicidando davanti ai suoi occhi) per punire i vecchi e nuovi carnefici lungo le generazioni.
Ma non corriamo troppo. Andiamo per ordine. Inizia con una voce e una finestra, la maledizione di Cadet. Una spinta irrefrenabile verso il vuoto, come una chiamata a raggiungere gli altri studenti suicidi, e poi un salvataggio in extremis con cui rientrare prima di buttarsi. Però qualcosa sembra (già) cambiato, nel piccolo Serik. Come se un germe lo avesse ormai contaminato, trascinandolo in una spirale di possessioni nella quale uccidere per non uccidersi, o magari essere ucciso. Non solo passando da ragazzino/«femminuccia» timido e bullizzato per i suoi capelli «da Raperonzolo», così sbagliati in una «scuola per maschi», a primo del corso letteralmente programmato per «uccidere questi bastardi» a colpi di fucile e di baionetta, ma volendo provocare le morti che sempre più lo circondano. Yerzhanov le mette in scena in un horror livido, pienamente politico nel suo evidente afflato antimilitarista/antibellico/antimachista e nelle sue ripetute frecciatine ironiche alle scorie mai del tutto esaurite dell’ultima e ormai corrotta Unione Sovietica, dal quale più volte virare verso il dramma familiare di una madre e di un figlio in cui il dolore sembra un’eredità generazionale da cui non potersi esimere, e in cui lasciare che le contraddizioni e gli elementi inspiegabili del soprannaturale mettano apertamente in crisi fino alla distruzione ogni possibile metodo cartesiano di approccio razionale secondo cui, disperatamente, cerca di condurre l’indagine sui ripetuti suicidi (o meglio omicidi “indotti”) il buffo poliziotto municipale Birzhan che pure quando ricorre a candele e interrogatori paranormali si rifiuta fino all’ultimo, e inevitabilmente a proprie spese, di credere ai fantasmi. È per questo che Cadet, giunto ora in prima europea nel Forum annesso alla 75ma Berlinale pochi mesi dopo la prima assoluta dell’ultimo Tokyo Film Festival, si struttura usando come capitoli proprio le quattro regole fissate da Descartes come base per ogni indagine scientifica, per poi progressivamente trasformarle in sangue, allucinazioni, volontà omicida, mostruosità dei volti o forse semplicemente schizofrenia delle percezioni, inevitabilmente morte ma soprattutto cinema, ragionando sul senso di colpa e sull’inevitabilità del Male, sul suo radicamento multiforme ovunque nel mondo e nelle storture della società non solo militare, ma anche sul vedere, sul sapere, sull’immaginare, sul temere e magari vedere immediatamente realizzarsi, e quindi intrinsecamente sul cinema che fantastica e poi mostra, come quando Serik riferisce alla madre un incubo ricorrente e inizia a succedere in perfetto ordine tutto ciò che ha appena raccontato. Adilkhan Yerzhanov, con estrema raffinatezza e strabordante talento, costruisce il film fra figure ai margini delle inquadrature (magari lasciando al centro enormi murales di chiamata alle armi che puntano i loro mitra proprio verso la madre e il figlio) e giochi di specchi con cui trovarsi improvvisamente moltiplicati proprio come con quelle quattro anime che entreranno nelle viscere, attese che sembrano infinite prima di un’apparizione improvvisa magari di un solo istante e psichiatri (o imam religiosi) ipnotizzati mentre cercano di capire quale sia il male che affligge il ragazzo, orecchie sanguinanti degli astanti che abbaiano ordini e punizioni ingiuste e deliri mentali in cui vedere se stessi ridere in mezzo agli altri malvagi. Magari proprio mentre misteriosi simboli del Male appaiono sui pavimenti o sulle mani in un crescere convulso di risate lynchane, lentissime carrellate fanno presagire il peggio da ogni fuori fuoco e da dietro ogni stipite, e impossibili madri di altri cadetti morte suicide poco dopo il loro figlio appaiono in una sala d’aspetto per avvisare Alina di fuggire finché è ancora in tempo. Ma il tempo è già scaduto, fra chi guidato dal rumore di una penna si accoltella negli occhi e chi si lancia da un cornicione, fra chi muore nel bagno e chi muore in palestra, proprio come quei cadaveri di maiali appesi in cortile su cui dover infierire. Senza che sia (più) possibile capire dove finiscano i demoni esterni che controllano Serik e dove inizi il suo demone interiore che controlla gli altri, né quanti effettivamente derivino dai traumi pregressi di una madre, da un amore inquinato dalla mancanza di amore e dalla violenza, da una vita in qualche modo nata e forgiata nella sofferenza, e che proprio per questo non può prescindere dalla morte. Non resterà, come anticipato, che l’aperta citazione kubrickiana di una fotografia appesa alle pareti, nella quale rivedere ancora una volta la ciclicità del Male nello scorrere del tempo. Forse l’unico possibile coronamento di un film che fa passare la sua denuncia della violenza e della corruzione all’interno dell’esercito, e in generale all’interno della cultura patriarcale, per l’autorialità, per la cinefilia, per le commistioni di linguaggi filmici, per la continua invenzione – anche formale, con una regia perfettamente squilibrata in ogni inquadratura e un montaggio che ritorna a essere il vero e proprio specifico filmico teorizzato dai grandi maestri sovietici – di infiniti elementi sospesi fra il panico, l’impressione e la meraviglia. Per il nitore della messa in scena e dello sguardo di un autore che si sa ogni volta confermare prezioso ben al di là della sua insolita provenienza geografica, e che nel rielaborare le illustri influenze che muovono la sua fantasia in un cinema personalissimo e straordinariamente raffinato trova ogni volta una chiave differente per ragionare sul Bene, sul Male, sulla violenza, sul confine nemmeno troppo sfumato fra la giustizia e la legge, sui rapporti di potere, sul mistero stesso dell’esistenza. Ma anche sulle percezioni, sul subconscio, sul sogno, e chiaramente su quella magnifica ossessione attraverso cui problematizzare e raccontare tutto questo trasformandolo in immagini, suoni, narrazione e splendido, sublime genere.
Marco Romagna