Basterebbe forse la ben precisa scelta di messinscena con cui Hong Sang-soo fa disporre i due insegnanti e le quattro allieve, seduti a tavola per cenare insieme dopo la prima dello spettacolo, grossomodo nelle medesime posizioni circolari che occupavano sul palcoscenico, per poi inquadrarli dallo stesso identico punto di vista fisso con tanto di attrice che rompe ogni convenzione rimanendo per tutta la scena di spalle al pubblico. Come a suggerire, nell’ennesima meta-variazione sul tema del grande autore coreano che dopo la rapida sterzata verso la poesia di A traveler’s needs ritorna a parlare apertamente di recitazione, regia e ben preciso metodo di lavoro con cui (continuare a) forgiare i pianisequenza per lo più fissi del suo personalissimo cinema di ossessioni e autoriflessività, una corrispondenza quasi perfetta fra il teatro, lo schermo e la vita (e forse anche la pittura, la scrittura, la filatura su enormi telai…), o per lo meno il loro continuo compenetrarsi, il loro costante procedere a braccetto non semplicemente paralleli ma inevitabilmente concatenati, mentre continuano lungo lo scorrere dei giorni a forgiare tappa dopo tappa le anime dei personaggi nel procedere della loro rappresentazione. È per questo che By the stream, presentato in concorso a Locarno77 con la traslitterazione del suo titolo coreano 수유천, Suyoocheon, per molti versi non si limita a rilanciare ma più che mai espande il più che consueto discorso di Hong (e del suo ormai affiatatissimo gruppo di attori che per molti versi già sanno come affrontare ogni singola scena, fra il rapido studio mnemonico delle necessarie e sempre profondissime frasi-chiave che il regista è solito scrivere giusto la sera prima di girare e la più o meno libera improvvisazione sui suoi canovacci) verso sfaccettature e stratificazioni sempre analoghe eppure ancora inesplorate, in qualche modo ‘inedite’, e se possibile ancora più apertamente teoriche nei loro piani che si intrecciano fra i diversi livelli di messa in scena e i differenti medium artistici attraverso cui portare a maturazione le consapevolezze e i rapporti umani. Continuando a raccontare rohmerianamente brandelli di vita ed emozioni (anche in questo caso potrebbe non essere una bestemmia tirare fuori pure Jacques Rivette e il suo Va savoir, più complesso nel suo studio di Pirandello e Goldoni ma con diversi alleli in comune con questo lavoro nel portare avanti la medesima narrazione tanto dentro quanto fuori dal palco) senza mai smettere di interrogarsi apertamente sulla loro recita, sulla costante ripetizione come un infinito studio di possibili sfumature, sui ben precisi ruoli dell’attore e del regista, sul loro rapporto da stratificare nella creazione di alter-ego e di personaggi dalle caratteristiche paradigmatiche. Ma anche sulla dialettica da sempre centro nevralgico di ogni film di Hong, sulle inevitabili indecisioni che attanagliano ogni (meta)scelta autoriale, su uno sguardo che può essere ancora in formazione (i fuori fuoco di In water, o le evasioni in bianco e nero di Introduction) oppure semplicemente da ricalibrare di volta in volta in base alle singole storie sempre uguali e sempre differenti. E soprattutto sul lasciare il più possibile fluire da soli i momenti di (falsa) verità di fronte alla fissità di una macchina da presa che rimane accesa in long take sui totali o sui piani a due (o a tre, o a quattro, o a sei), concedendosi giusto un pugno di panoramiche e il vezzo autoriale di qualche zoom in oppure out, o al massimo di rimanere ancora qualche secondo ferma sugli ambienti quando i protagonisti saranno già usciti dal campo.
Questa volta è un’università rigorosamente femminile, il contesto fondamentale del film. Un dipartimento non strettamente legato alla recitazione ma più in generale all’arte (con tanto di nutrito curriculum di mostre ed esposizioni richiesto come requisito necessario a tutti gli insegnanti), che sta continuando a organizzare un laboratorio teatrale nonostante l’obbligato allontanamento del precedente docente, reo di avere invitato a cena tentando di sedurre tre delle quattro studentesse coinvolte. La professoressa Jeonim, interpretata da una Kim Min-hee tornata al suo posto come attrice-feticcio e musa ispiratrice di Hong dopo la brevissima assenza dal film precedente, tenta di affidare il corso, la stesura del testo e la regia dello spettacolo a un suo zio famoso attore e drammaturgo, il quale dopo dieci anni di assenza e di silenzio familiare inaspettatamente accetta di raggiungerla nell’ateneo di Seul per preparare lo spettacolo nonostante i pochissimi giorni rimasti a disposizione. Una premessa su cui Hong Sang-soo, alter ego più che mai evidente del co-protagonista, costruisce ancora una volta una parabola collettiva che nel giro di un breve arco narrativo che racchiude poco più di una settimana in 111 minuti passerà ripetutamente dalla commedia al (melo)dramma, dal romanzo di formazione alla critica d’arte, da qualche piccolo alone di sospetto e di mistero fuori campo alla sincerità (o forse no) dei sentimenti. Cambiando la vita, le percezioni e le emozioni tanto dello zio attore quanto della nipote insegnante, tanto di quella collega da sempre importantissima per Jeonim quanto delle quattro ragazze finalmente pronte a svelare senza più filtri la propria interiorità, mentre lo spettacolo via via prende forma nei loro gesti e nella messa a punto degli ultimi dettagli. Fino a quell’altro professore cacciato dalla scuola che ora, facendo a sua volta teoria sulle cene con le studentesse come tappe innocenti e fondamentali della creazione della necessaria chimica fra regista e attrice, torna per chiedere a una delle giovanissime allieve di sposarlo. C’è chi riuscirà finalmente a parlare dei propri periodi di depressione e crisi psicotica (magari somatizzati al tempo in un occhio sanguinante) e c’è chi confesserà apertamente le proprie paure e le proprie incertezze mentre guarda al futuro e a quella persona che si vuole (o che si teme di) diventare. C’è chi ammetterà di essere tornato principalmente per riprendersi la rivincita su un insuccesso passato mai del tutto metabolizzato e c’è chi si scoprirà sinceramente innamorato proprio quando pensava fosse troppo tardi per ritrovare simili emozioni. C’è chi tenterà più o meno goffamente di accampare scuse per giustificarsi e c’è chi invece sopra e sotto il palco raggiungerà in maniera del tutto naturale, senza nemmeno rendersene conto, quella sintonia e quella fiducia reciproca tanto fondamentali in ogni rapporto umano ma forse ancora di più nel lavoro collettivo di messa in scena e nel cinema. Un lavoro in cui lasciare emergere senza più vergogna né limiti, magari aiutati a sciogliersi dalle immancabili bottiglie di soju, i propri traumi e la propria dignità, le proprie sofferenze e i propri desideri, i propri rimorsi e la propria profondissima umanità. I controcampi del proprio sguardo, non certo per caso tutti rivolti alla luna, con cui dolcemente accendersi d’amore e d’affetto familiare. Il resto è un ristorante in cui mangiare l’anguilla grigliata direttamente sul braciere in mezzo al tavolo, è un’aula universitaria, è un teatro, è la terrazza sul tetto di una libreria, è l’ennesima bottiglia d’alcool che viene svuotata, è una danza improvvisata con una foglia. È una telefonata con cui farsi venire a prendere annunciando finalmente la nuova coppia felice, ed è uno strabiliante fermo immagine finale su un ultimo sorriso quando non ci sarà più «niente da vedere». Forse l’unica possibile chiusura dell’ennesimo film sublime di Hong Sang-soo, sempre (quasi) uguale eppure questa volta ben lontano da qualsiasi possibile sentore di pilota automatico nel suo allargamento quasi pirandelliano al teatro (e non solo) del campo delle variazioni sul tema. Fra aiuti reciproci e inaspettate incomprensioni, verità e bugie, cooperazione e perfette commistioni fra l’esistenza umana e le possibili forme di rappresentazione, come se un aspetto non potesse fare a meno di influenzare l’altro, come se la vita stessa potesse ritrovare il suo senso solo nel momento in cui la si guarda da un altro punto di vista per riscriverla, (etero)dirigerla e metterla in scena. Mentre la quotidianità scorre imperterrita proprio come quell’acqua che Jeonim insegue lungo le sponde del fiume per trasformarla – By the stream – prima in disegno e poi in tessuto. Cogliendone tutte le sfumature e tutti i movimenti, tutto il defluire placido e tutto l’impeto di un’improvvisa rapida, tutto il fascino naturale e tutto il più intrinseco senso metaforico dell’atto di trovarsi, ogni giorno un po’ di più. Magari per poco, magari per sempre. Non si può sapere, si può solo vivere. E magari rappresentare, che poi a ben vedere è la stessa identica cosa.
Marco Romagna