«Big man, pig man
Ha, ha, charade you are
You well heeled big wheel
Ha, ha, charade you are
And when your hand is on your heart
You’re nearly a good laugh
Almost a joker
With your head down in the pig bin
Saying ‘Keep on digging’
Pig stain on your fat chin
What do you hope to find
Down in the pig mine?
You’re nearly a laugh
You’re nearly a laugh
But you’re really a cry»Pink Floyd, Pigs (Three Different Ones)
Il primo e fondamentale colpo di genio sono ovviamente i muzzle, volutamente e già spassosamente demenziali, grossolani e posticci nelle vistose maschere di plastica del loro bassissimo costo. Incroci fra uomini e maiali, ben più metaforici di quanto la confezione faceta di un’exploitation smaccatamente kitsch nella sua ostentata serie B (o forse Z) e nella sua ironica, consapevole e divertita ricerca di cattivo gusto, esagerazioni e liquami corporei del film possano far intendere, che sono velocissimi, disgustosi, volgari nel loro grugnire e straordinariamente sporchi, creati da una qualche potenza per imporsi nella Terza Guerra Mondiale ma ben presto sfuggiti di mano all’umanità fino a diventare la nuova specie dominante che, in un totale ribaltamento del nostro allevamento intensivo dei suini, dopo aver ridotto le città a cumuli di macerie ora comanda, rinchiude, ingrassa, macella, appende in cella frigorifera e avidamente mangia quel residuo 30% di uomini sopravvissuti al conflitto. Come è un colpo di genio il breve ma centrale ruolo di Danny Trejo, figura paterna che ha forgiato il protagonista con le massime di un ateismo che sfacciatamente lambiscono la blasfemia fra l’inesistenza (se non addirittura la natura di errore umano) di Dio e la consapevolezza dell’iniquità «merdosa» della vita, tanto da essere rimasto ucciso per essersi difeso da un’aggressione e da essere destinato a ripresentarsi al figlio solo sotto forma di fantasma e di spirito guida. Sono geniali i continui e deflagranti cambi di tono, esasperati e roboanti nel rendere eretica parodia che spinge sul pedale sempre spiazzante e strabordante del “trash” l’horror, la commedia, l’action, il survival movie e uno sgangherato erotismo becero tutto di seni rifatti, pensieri omosex, natiche, «procedure» per essere assistenti e improbabili concorsi di bellezza. Sono geniali, fra “il Fegato”, “la Madre” e quel Benedict Asshole che del maiale non ha la faccia ma il buco del culo, i nomi dei muzzle e degli uomini traditori infiltrati nella resistenza mentre lavorano in realtà per loro, e quindi per il sistema.
E soprattutto è geniale – ancor più che nel Diamantino di Abrantes e Schmidt – l’apparizione parodistica di Cristiano Ronaldo (che probabilmente non a caso, in un film bulgaro, ha nel viso leggermente più largo di quello dell’asso portoghese un qualcosa che ricorda anche il “loro” fenomeno Hristo Stoičkov), che fa rovesciate per reinserire al volo i caricatori nelle armi e che solo il fuoco amico potrà (forse) fermare. È geniale la sorella donna baffuta con la quale magari commettere ripetuti incesti, è geniale l’androide in bombetta che parla distorcendo parte del fotogramma, e sono geniali gli esacerbati salti dal secondo piano direttamente al volante della decappottabile. È geniale la provocatoria e sempre ironica ostentazione dei genitali maschili vivi e morti magari da usare per nasconderci, passando ovviamente per lo sfintere anale, la canna di una pistola e sparare a un nemico, ed è geniale la definizione dei (tanti, tantissimi) proiettili come «ali della giustizia, ma fatte di piombo». Ma non avrebbe senso cercare realmente di mettersi a enumerare tutte le trovate di purissima furia iconoclasta e rivoluzionaria che Bullets of justice, folleggiante cinedelirio in cui il bulgaro Valeri Milev immagina la sua personalissima versione di mondo post-apocalittico che cerca di resistere ai muzzle, porta sullo schermo nel suo decalogo di comicità sorniona, estetica lurida, irriverenti sproporzioni oniriche e sovversivi parossismi con cui osare sempre più nell’aperta sfida al gusto e alle regole del cinema mainstream, alla società e alla politica, al moralismo e al potere. Quel potere che ha geneticamente forgiato i muzzle per usarli per nuocere ad altri esseri umani, e che nel momento in cui ne ha perso il controllo nient’altro è riuscito a fare che rimpallarsi responsabilità fra Stati ben presto distrutti dalla propria stessa fame bellica, economica e sistemica. Perché è un divertissement Bullets of justice, senza alcun dubbio lo è, ma nel suo acido quanto lucido sarcasmo non dimentica di innestare bordate folli e ribelli sull’inaffidabilità e sulla natura infida degli uomini, mentre rilancia quella perfetta allegoria, già quarantadue anni fa dei Pink Floyd di Animals e recentemente ripresa anche dallo stesso Roger Waters a dimostrarne la costante contemporaneità nei tempi di Trump e Johnson, che vede nei maiali la perfetta e più compiuta incarnazione dei vizi umani e del Capitale.
Girata in soli diciassette giorni elaborando fino al lungometraggio quello che sarebbe dovuto inizialmente essere il pilot di una serie, l’opera quarta di Valeri Milev giunta in prima italiana come ultimo folle ed esaltante appuntamento di mezzanotte del Trieste Science+Fiction 2019 sputa costantemente sangue e merda in faccia allo spettatore fra ralenti e zoom, still animate volutamente “brutte” e dettagli piccanti, boschi e barche, tetti e tettE, interrogatori e liquami, bruschi movimenti improvvisi e proiettili, lame e concitati schiaffi della macchina da presa. Un UFO cinematografico con il (dis)gusto di John Waters e con la furia che insanguina lo schermo di Seijun Suzuki e di Takashi Miike, con le metafore suine già del Porcile di Pasolini e con un’immagine fortemente sporca, cupa e contrastata, che ribelle e onirica mescola senza soluzione di continuità Machete e tutti i film a cui guarda con Mad Max, i cacciatori di taglie con i calciatori professionisti, la guerra con il sesso, le fughe con le basi militari, gli zaini volanti con le esplosioni. La famiglia con le esecuzioni, i flashback con le visioni, i piani militari con i costumi ridicoli che coprono il meno possibile delle pudenda. Inserendo fra gli attacchi e i combattimenti, fra i cadaveri e lo sterco di maiale di cui ricoprirsi per dissimulare l’odore umano, il melodramma, l’incesto, le trasformazioni, gli inganni, i viaggi folli e parossistici ma (mai?) lisergici nascosti nelle carcasse umane, e quelli nel tempo per parlare con se stessi bambini doppiati con la stessa voce dall’adulto per rimediare agli errori passati. Ci sono segreti sulla natura (sin dall’infanzia) dei baffi femminili che saranno destinati a rimanere tali, ci sono tempi che si accorciano a perdifiato e che poi comicamente si dilatano quando non si riesce ad aprire il sacchetto con la testa di Benedict Asshole (o forse di un certo Massimo Zardi), e ovviamente c’è, fra le esplosive ed esasperate trovate visive e narrative che Bullets of justice costantemente inanella nel suo inarrestabile e rossiniano crescendo programmaticamente slabbrato, un infinto campionario di trappole, satira nerissima, tradimenti e ritorni sotto mentite spoglie. Ma soprattutto proiettili.
Ci sono i ferri nelle gambe e le spaccate volanti di quella sorta di Jimmy Page antagonista umano con cui continuamente confrontarsi, ci sono i combattimenti corpo a corpo che sfociano in tango, e c’è persino chi da disarmato con le spalle al muro e con la bocca di un’arma da fuoco puntata in mezzo agli occhi riesce a salvarsi perché, per puro caso, dal piano di sotto qualcuno proprio in quel momento spara verso l’alto uccidendo il suo assassino. Perché far ridere, e riuscirci per davvero, fino in fondo, magari distruggendo uno per uno ogni tabù e ogni consuetudine sociale e cinematografica, è sempre stata una cosa seria. Specialmente se alla fine della folle corsa c’è il sogno, c’è la fuga dalla realtà, c’è l’immaginazione ossessionata. Quella di un inetto rimasto chissà per quanto tempo incantato a fissare il vuoto fantasticando sul proprio presunto eroismo durante l’apocalisse come unica possibile salvezza dalle frustrazioni e dalle inadeguatezze della sua vita grama, quella di un cinedelirio che si rivela semplice delirio che ha reinventato e reinnestato in un universo di uomini e maiali quei nomi e quei volti di una realtà quotidiana di oppressione. Uomini che ancora non indossano alcuna maschera suina e che ancora non si sono evoluti in una specie ibrida, ma che continuano imperterriti a essere sempre più simili ai maiali facendo schifo, ingannando, tradendo, cambiando sponda e umiliando per il semplice gusto di farlo. Non resta che sperare che al volante della prossima auto ci sia anche nella quotidianità un robot, con cui ritornare a sognare e a ribaltare il proprio dolore nei muzzle e nelle loro teste che cadono ed esplodono. Che poi, a ben vedere, nient’altro è che pensare già cinema. Di serie B, piccolo, economico, indipendente, sporco, spudorato, volgare, provocatorio, insofferente, respingente, pazzo, scostumato, debordante, eccessivo, anarcoide, eretico, geniale. Un cinema infinitamente sincero e divertente, e proprio per questo, mentre fa tutto ciò che può per tentare di dimostrare il contrario e probabilmente al di là delle sue iniziali ambizioni, grandissimo e folgorante come una bomba che non smette mai, nemmeno per un secondo, di deflagrare. La fiaccola dell’anarchia.
Marco Romagna