Ancor più che per il toro del titolo, passa necessariamente per le ferite, per i lividi e per le cicatrici il romanzo di formazione di Bull, esordio al lungometraggio di Annie Silverstein perfettamente – probabilmente fin troppo – innestato nel filone dell’indie americano e presentato come primo titolo di Un Certain Regard a Cannes 2019. Passa per il corpo martoriato di Abe, ex campione di rodeo afroamericano in uno sperduto paesino del profondo sud degli Stati Uniti ormai avanti con gli anni ma ancora impegnato nel business dello spettacolo con tori nei “salvataggi” dei cowboy disarcionati, e passa per la prima cavalcata della giovanissima Kris, bianca quattordicenne problematica e ribelle con il padre assente e la madre in carcere, una nonna depressa e una sorellina da crescere. Due personaggi opposti e apparentemente incompatibili destinati a trovarsi nel centro delle rispettive parabole, due bestie che hanno bisogno di scontrarsi e poi incontrarsi per ritornare umane: lei che attraverso i tori cresce, e lui che dei tori avrebbe invece forse bisogno di disintossicarsi, ma non potrà mai farne a meno perché su di loro ha costruito non solo ogni suo guadagno, ma anche la sua vita, la sua autodeterminazione, la sua dignità. Siamo nel profondo Texas, pochi chilometri a ovest di Houston, in un’America “piccola” e rurale, lontana dai ritmi frenetici delle metropoli, dove ancora l’umanità, magari costretta dalla povertà e da una situazione familiare insostenibile a delinquere o a far valere le proprie ragioni con la violenza, magari ormai dipendente dall’alcool e dagli antidolorifici senza i quali è impossibile continuare a lavorare, magari non nuova a episodi di razzismo o di intolleranza, può permettersi “il lusso” di essere sincera nei rapporti personali, pervasa di una profondissima dignità normalmente rara da reperire quando da uno schermo ci si affaccia sul Texas. Non è certo un caso che uno dei primi punti di Bull, mappatura umana ben felice di mettere in scena l’affresco sociale lasciando il pennello in mano ai suoi protagonisti, sia ribaltare gli stereotipi razziali, mettendo in scena una ragazzina bianca che cade nei vortici che il luogo comune – e il cinema – vedono in genere avviluppare in una morsa i maschi neri, e un attempato nero che fa il cowboy – tipico ruolo “bianco” – fra borchie, selle, divise, stivali e guanti da rodeo. Ma non è nemmeno un semplice rovesciamento, il punto: Annie Silverstein, intelligentemente, preferisce abbattere le distanze, preferisce sfumare i contorni, preferisce lasciare che siano gli esseri umani a emergere, nella loro emotività, nel loro punto di vista che la macchina da presa incornicia sullo schermo, e nei loro sentimenti anche contrastanti. In un rifiuto, che poi è lo stesso dei suoi protagonisti, nei confronti di ogni schema sociale precostituito, che paradossalmente non riesce però a evitare gli schemi precostituiti del genere e del (sedicente, in realtà costa milioni) indipendente a stelle e strisce.
Già vincitrice nel 2014 qui sulla Croisette della Cinéfondation con il suo corto Skunk, la Silverstein delinea con Bull un affresco sociale che lavora al contempo di accumulo nelle situazioni e di sottrazione nelle possibilità, cercando la contraddizione, il dilemma etico, lo sbaglio, la facciata, la caduta da cui rialzarsi, l’acqua sporca dalla quale necessariamente ripulirsi, o per lo meno gli occhi chiusi, quelli di chi si fida di chi ha di fronte, o forse quelli di un toro furioso che carica alla cieca, senza badare a dove colpirà. Con risultati intermittenti, che alternano momenti di riuscito ma forse alla lunga un po’ tirato lirismo (gli abbracci di Kris con la sorellina quando quest’ultima crede di essere stata abbandonata, oppure Abe in convalescenza che piscia sangue subito dopo essere stato incornato da un toro, o ancora quegli istanti in cui nel loro rapporto, fra rodei, iniezioni, bovini, sensi di colpa, delusioni e ritorni finali a casa, deflagra un inaspettato affetto) con uno sguardo a tratti appannato e svolte narrative non sempre convincenti, che vanno a intaccare la scorrevolezza dell’intreccio fra lo spaccio di pillole e i tuffi del pentimento direttamente in bicicletta. Ci sono le lacrime della nonna da sola sul letto, spiata da Kris in silenzio dallo stipite della porta, e poi ci sono le lacrime della stessa giovane protagonista, e della madre di lei, quando a causa di un pugno rifilato a una guardia carceraria la genitrice scoprirà di non poter più uscire per buona condotta. Lacrime che fanno il paio con quel livido ammirato e fotografato allo specchio come se fosse una medaglia al valore dopo il primo toro cavalcato, ma anche lacrime di dolore senza (più) catarsi che non giungono al momento dell’errore (o meglio, di uno dei ripetuti errori di Kris e della sua famiglia), ma solo in quello del forzato abbandono, di una punizione che, a differenza della denuncia ritirata da Abe dopo che Kris gli avrà devastato casa con gli amici, non prevede “solo” di scusarsi e rimediare ai danni. Ma forse è proprio questa, ben prima delle pasticche cadute dalla borsa causa della morte delle galline di Abe e del suo più che legittimo adirarsi proprio nel momento in cui Kris sembrava aver trovato nella redenzione del burbero quella figura paterna, o per lo meno maschile, del tutto assente dalla sua vita familiare, la scintilla che fa scattare la crisi di coscienza della protagonista, e quindi la sua maturazione, non più disposta a mentire e spacciare per il semplice guadagno, ma al contempo, proprio quando sembra spalancarsi la voragine di definitiva rovina e prostituzione, pronta a far emergere per la prima volta la sua dignità con il passo indietro del ritorno da Abe. Nulla di inedito, nulla di sorprendente, ma oltre alle ottime interpretazioni e all’adrenalina dei ripetuti rodei c’è una ben precisa onestà che traspare dall’operazione, un ben preciso schierarsi con i suoi personaggi, una ben precisa scelta di punto di vista, e non certo in ultimo un ben preciso afflato antirazzista e antisessista. Poi però torna alla mente lo sguardo che, con una finzionalizzazione che molto più smaccatamente partiva e si commistionava con il documentario, aveva dischiuso sul Texas, prima di passare ai risultati alterni della Louisiana, la straordinaria trilogia The passage, Low tide e Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini, e il pur difendibile Bull già quasi sparisce nella mente, lontano anni luce, perso da qualche parte nella mediocrità di una pletora di film in sostanza tutti uguali, e già visti davvero troppe volte.
Marco Romagna