BUFFALO 66 (1998), di Vincent Gallo

Invent Yourself
Michael Azerrad lo chiamerebbe “American Indie”, l’anno zero del cinema indipendente americano: 1998. Un cinema reloaded se consideriamo autori di inizio decennio come Jon Jost, Hal Hartley, Gus Vant Sant, Harmony Korine e Larry Clark, per citarne alcuni. Sul finire degli anni 90, prima che l’attacco alle Twin Towers decretasse la fine di un periodo musicalmente e cinematograficamente nel pieno di una fioritura, con un piede sull’insegnamento dei padri hardcore della DIY (do it yourself), Vincent Gallo, dopo tre cortometraggi, decide di esordire con la magnum opus della sua breve filmografia d’autore: Buffalo ’66.

This is the Era where everybody fakes
Billy Brown (Vincent Gallo) è un disadattato antisociale che ha scontato cinque anni di carcere per un crimine che non ha commesso, saldando un debito contratto con un allibratore (Mickey Rourke). Non pago di tornare alla vita, Billy, decide di vendicarsi del giocatore che ritiene responsabile della sconfitta dei Buffalo Bills ma, prima, deve ripulirsi la coscienza, e dimostrare ai genitori che la sua vita è un successo poichè l’imperativo americano della ricerca della felicità è una cosa reale e non una storia ai confini della realtà.
Layla (Christina Ricci), una tenera sconosciuta che pare uscita dalla canzone di Eric Clapton, viene rapita da Billy e presentata come moglie dinanzi ai suoi genitori: Jimmy (Ben Gazzara) e Jan (Anjelica Houston) sono due persone irrecuperabilmente anaffettive e, per quanto il loro unico figlio si presenti apparentemente come una persona che ha trovato il suo posto nel mondo (Billy dice di lavorare per il governo americano), rimangono completamente distanti e a tratti grotteschi, forse vittime di quei cambiamenti sociali avvenuti nei sixties, dove i ruoli tra genitori e figli si sarebbero confusi sempre di più.
Non è un caso che Vincent Gallo abbia girato un film simile negli anni ’90, dove i rimandi ai ’60 erano parecchi. La colonna sonora si arricchisce di un pezzo dei King Crimson (l’indicibile Moonchild del 1969) e due degli Yes (Sweetness del 1969 e Heart of Sunrise del 1971), senza nulla togliere alle composizioni dello stesso eclettico regista.

The Forgotten Children
Sono loro i ragazzi dimenticati dal mondo, Billy e Layla, che non trovano redenzione in quegli spazi così vasti dell’America, quasi creati apposta per far si che la gente si perda e non si ritrovi mai; non basta un disperato ponte sonoro o tattile (dolceamara la scena della cabina delle fototessere, dove Billy non vuole essere toccato da sua “moglie” quasi come a voler ribadire il concetto di Mark Arm “Don’t touch me, I’m sick”), per avvicinare le ennesime due solitudini raccontate da una macchina da presa.
Layla (una toccante Christina Ricci) accompagna il nostro loser in una specie di via crucis nei luoghi in cui è cresciuto, diventando un punto fermo in un periodo (quello di fine decennio) in cui tutti si erano arresi, suicidati e dispersi, fino ad arrivare alla famosa scena dell’albergo dove Billy dovrà decidere se proseguire nell’abbagliante solitudine delle vendetta o ritornare tra le braccia di un amore senza nome.

Nati per perdere
Nessun posto dove andare e nessuno con cui parlare. Vincent Gallo arriva quando la festa è finita, regalandoci un’opera umana e sottilmente dilaniante. Si avvicina al cinema con la stessa arroganza e innocenza di un bambino che si affaccia sul mondo. Il montaggio appare spesso dissonante, la fotografia (quasi a bassa definizione) ha tutta la grazia di un realismo impietoso e urbano, i silenzi volti ad enfatizzare se non l’incomunicabilità, l’indifferenza tra simili. Se non è un manifesto è di certo una lettera indirizzata a chi è cresciuto prima dell’avvento della banda larga, di un tempo lontano e al contempo così vicino in cui i rapporti umani erano rovinati dalle famiglie disfunzionali e non s’incolpava solo uno schermo. In fondo chi altro se non Vincent Gallo, un uomo che sul sito ufficiale vende il suo tempo al miglior offerente, avrebbe potuto girare una storia simile? Americani, come quelli descritti da John Jeremiah Sullivan, o semplicemente perdenti, ed è questo a rendere Buffalo ’66 un’opera universale.

Maria Eleonora C. Mollard