BROTHERS IN EVERY INCH (2022), di Alexander Zolothukin
Non serve più far deflagrare una perfetta esecuzione orchestrale del Rach3 nella cecità della Prima Guerra Mondiale, al cinema di Alexander Zolothukin. Questa volta gli è più che sufficiente il caos controllato di un tappeto orchestrale introduttivo di Wagner, mentre si fonde con il rombo assordante dei motori dei jet che sfrecciano nei cieli sulla base militare. Eppure c’è ancora per molti versi la stessa musicalità profondissima del folgorante esordio A russian youth, in questo nuovo Brothers in every inch con cui il regista russo, allievo fra i più brillanti di Sokurov, torna tre anni dopo (e con in mezzo la partecipazione al collettivo Neighbors) sempre alla Berlinale, questa volta “promosso” dalla vetrina di Forum alla competizione ufficiale della sezione Encounters. Una musicalità insita intrinsecamente nello specifico filmico sincopato di questa sua opera seconda, nei dettagli aerei e al contempo tattili delle sua inquadrature, nel suo montaggio che le cuce ipercinetico fra attrazioni e cacciabombardieri, nell’abbacinante cura estetica e fotografica della sua talentuosa e personalissima visione autoriale – forma e contenuto, forma è contenuto – con tanto di mascherino che ancora una volta contorna la granulosità delle immagini in un confine dai bordi stondati. La loro pasta, però, non è più in quello stesso 16mm gonfiato e materico di A russian youth, ma cerca una differente fisicità partendo necessariamente dalle riprese in digitale, un po’ per le necessità tecniche di maneggevolezza fondamentali per poter filmare i punti di vista più disparati ed entusiasmanti di un piccolo aereo in volo, e un po’ perché è differente questa volta il senso che le immagini vogliono evocare. Il punto non sono più i graffi polverosi delle trincee di un secolo fa, ma soffiare dolcemente lo stesso afflato antibellico dell’opera d’esordio sulla contemporaneità putiana e militarista di oggi. Con un film forse in definitiva meno ambizioso e illuminante rispetto al precedente capace di imporre subito l’autore all’attenzione cinefila mondiale, forse non privo di qualche inaspettata sterilità fra le pieghe di senso della narrazione, eppure tanto eccezionale nell’apparato tecnico e formale quanto straordinariamente scaltro nell’infiltrarsi ancora una volta fra le maglie della censura russa – al punto di trovare la co-produzione degli stessi Ministeri federali della Cultura e soprattutto della Difesa, oltre ai rari permessi per girare in una reale base militare attiva – con una trama che si presenta come un’apparente celebrazione dell’eroe bellico, e che invece fra ambiguità e contraddizioni ne mina lo stereotipo dall’interno fino a demolirlo, fino a mostrarne tutta la fragilità umana, tutta l’inadeguatezza alla guerra e al bombardamento di innocenti, tutto il lato infantile che riemerge come la necessità di un’autodifesa nell’attesa dell’orrore, tutta la malinconia e la paura di non rivedersi mai più.
Basta una coppia di gemelli, al vertiginoso Brothers in every inch. Una coppia di fratelli inscindibili e complementari, cadetti insieme nell’accademia militare e nella condivisione del sogno di volare, eppure paradossalmente proprio per il loro legame e per il loro continuo e reciproco aiutarsi il principale intralcio l’uno per l’altro. Il primo, Mitya, eccezionale nella teoria ma sempre più in difficoltà fisica con il suo sistema vestibolare a reggere la pressione del volo, e l’altro, Andrey, esattamente all’opposto straordinario fra le nuvole ma mediocre calcolatore degli angoli da correggere negli atterraggi. Due gemelli identici che credono di essere diversi, che credono di reagire in maniera opposta alla stessa situazione, e che invece si scopriranno uguali in ogni pollice anche ben oltre l’aspetto fisico, anche ben oltre i giochi insieme piccoli e grandi nei ricordi e nei granai, anche ben oltre lo stesso cognome per il quale faticheranno a capire quale dei due sia il fratello rimproverato dal superiore e quale invece quello a cui sta facendo le congratulazioni. Una breve sensazione di spaesamento con cui, sin dalla sequenza iniziale, Zolothukin già suggerisce il loro non poter appartenere a quel mondo di orrore bellico e di divise militari, più portati semmai verso l’amorevole aiuto verso un ferito sconosciuto quando lo incrociano per caso in ospedale. Entrambi troppo puri e troppo umani nella loro interconnessione per potere davvero sganciare un ordigno, come se sulle loro mani ci fosse una doppia linea della vita, quella dell’uno e quella dell’altro, costantemente intersecati e interdipendenti proprio come lo sono le loro traiettorie di vita e di volo. C’è la preoccupazione che soffoca Andrey quando Mitya dopo l’ennesima evoluzione sviene in cielo mentre tiene in mano la barra di comando, e senza l’istruttore a prendere la cloche non sarebbe mai arrivato a terra sano e salvo, così come c’è la disperata corsa di Mitya in bicicletta sotto la pioggia verso la torre di controllo quando Andrey si ritrova a dover uscire vivo, volando alla cieca nella nebbia, dalle nuvole e dai fulmini di un’improvvisa tempesta. Del resto è questione di un attimo poter morire, o per lo meno andarci molto vicini fra le lamiere deformate di una fusoliera e i feriti – vivi ma gravi – portati via dall’ambulanza. Non serve nemmeno la guerra. Basta un momento, basta un imprevisto, basta incrociare uno stormo di uccelli nel punto sbagliato della traiettoria, per ritrovarsi all’improvviso di fronte ai compagni a terra insanguinati, alle piume che ancora svolazzano, a un aereo distrutto nel bosco, alla consapevolezza che è solo un caso che sia capitato ad altri.
Il resto vuole essere quasi un documentario, nel suo estremo realismo di volo e addestramento portato sullo schermo da Alexander Zolothukin, figlio di un pilota dell’aeronautica, con uno straordinario lavoro con attori in larghissima parte non professionisti e con una regia visionaria di dettagli strettissimi e di audaci punti di vista, di silhouette che diventano puntini in un lago rosso di fuoco mentre il bosco sta bruciando, di frastornanti prospettive aeree in decollo, evoluzione e atterraggio, di ruote e carrelli che escono e rientrano dalla pancia del velivolo e di strumentazioni da interpretare, fra le cinture da stringere e gli sguardi degli aviatori verso l’infinito. Ci sono gli esercizi fisici e quelli di orientamento, ci sono i test medici da rifare e i problemi matematici da imparare a risolvere in tempo reale a seconda della velocità di volo, dell’angolazione e del vento, e c’è persino il militare istruttore interpretato, con molti duri rimproveri e pochissimi grazie pronunciati a denti tanto stretti da sembrare quasi impercettibili, dal reale militare istruttore di volo Mikhail Klabukov, perfetto un po’ come ai tempi di Full Metal Jacket fu perfetto l’ex marine Ronald Lee Ermey per interpretare la propria esperienza quotidiana nell’iconico ruolo del Sergente Maggiore Hartman. Ma non è certo la virilità soldatesca, il punto di Brothers in every inch. Al contrario, quello che i virtuosismi tecnici della macchina da presa di Zolothukin vogliono mettere in scena sono proprio quelle contraddizioni che emergono dalle sue crepe fino a demolirne il cliché, sono le insicurezze e le debolezze di due fratelli che sembrano due metà scisse al punto di essere quasi inservibili da soli, è l’umanità che ancora brucia nei loro cuori in Accademia, è il loro sguardo che cambia e si fa cupo quando sul grosso caccia vengono caricate davvero le bombe, rendendosi conto forse per la prima volta delle responsabilità e delle potenziali atrocità di quel dito che le dovrà sganciare. Non più un gioco di forza ed equilibrio tutti insieme fra commilitoni, non più una doccia improvvisata con l’idrante proprio in mezzo alle piste dell’aeroporto, non più la ragazza di paese alla quale uno chiede (per ora, poi chissà…) solo un paio di stivali e l’altro seduzione, sentimenti e passione. Piuttosto è tempo di telefonare dopo chissà quanto tempo alla madre, uno quasi civile e uno quasi pilota, gemelli finalmente diversi o forse ancora più uguali, entrambi destinati a lasciare un mondo non loro, a tornare a casa insieme, a rimanere ancora per un po’ abbracciati. Incapaci di abbandonarsi e di rischiare che l’arrivederci diventi un addio, come quei due bambini che sognavano di volare e che ora, invece, hanno capito di essere inadatti alla guerra. Come dovrebbero essere tutti, in realtà, se solo la natura umana sapesse sempre fare il suo lavoro.
Marco Romagna