BROKEN VIEW (2023), di Hannes Verhoustraete
È un po’ come quei vetri caleidoscopici che con il loro costante movimento di colori trasformavano già da metà Seicento la lanterna magica nel primo antesignano di quello che sarebbe stato il cinematografo, Broken View. Un continuo rincorrersi e mettersi in relazione di temi, suggestioni, archivi, sguardi, storie, formati, materiali, feticismi, culture, pubblico e privato, con cui il belga Hannes Verhoustraete cuce insieme un prodigioso film-saggio sul ruolo (o meglio, sui tanti possibili ruoli) delle immagini costruite. Un lavoro con il quale scavare tanto nel colonialismo quanto nell’immagine, tanto nella Storia quanto nella propaganda, tanto nel Belgio quanto nel Congo, tanto nei misticismi quanto nelle convenzioni, tanto negli immaginari (pre)cinematografici quanto nella tecnologia. Tanto nell’Illuminismo quanto nel Mito (che va, che viene, che torna) in una vista che non può che essere spezzata nel suo passare (e magari ritrovare il movimento nella sovrapposizione di due fissità) attraverso la pellicola a passo ridotto e i vetri per le proiezioni, attraverso gli specchi che spettralizzano i feticci e la carta dei libri, attraverso i colori e le diapositive. Attraverso le tracce di una memoria passata a cui è troppo tardi per fare domande – «Io vedo attraverso i tuoi occhi e tu parli attraverso me» – ma che si può ancora interrogare negli sguardi silenziosi rimasti intrappolati sugli hard disc di uno zio che fu ufficiale medico in Africa, e nei suoi vecchi telecinema caserecci in VHS sui cui nastri ritrovare, fra i ticchettii del proiettore 8mm, quella voce e quella parola che già prima l’età e la malattia gli avevano ormai portato via. Fino magari a caricarsene sulle spalle le colpe, per lo meno quelle collettive, per lo meno quelle familiari, per lo meno quelle di chi ha (in)volontariamente condiviso uno sguardo e un immaginario, intrinseco falso di un’immagine (ri)costruita. Un film che parte dalla storia della lanterna magica, mezzo per infiniti fini al servizio dello spettacolo e della divulgazione scientifica, della verità e della propaganda, dei missionari in Africa e degli intrattenitori ambulanti in Europa, e che attraverso lo studio dei filmati e delle fotografie superstiti, delle fonti e degli archivi, ma soprattutto delle diapositive proposte all’uno e all’altro pubblico delle pionieristiche proiezioni, ragiona sullo sguardo dei coloni e dei colonizzati, passando come un prisma dalle mille facce per la frammentazione e per la totale eterogeneità dei materiali preesistenti, per le immagini fisse degli archivi istituzionali e per quelle in movimento degli archivi personali, per la carta dei libri e per le microstorie più tradizionali e paradigmatiche da innestare sulle mappe d’epoca e fra gli zoom di Google Earth. Passando per l’associazione di idee come collegamento iper(inter)testuale e per il continuo confronto – a volte conflitto e a volte stratificazione, fino magari al ritorno delle medesime immagini con senso totalmente differente – degli elementi più apertamente in contraddizione.
Basterebbe forse la vicenda che la mitologia vuole sia stata raccontata dai gesuiti a Étienne-Gaspard Robert detto Robertson, mago esperto in fantasmagorie, fisico e aeronauta giunto con la sua mongolfiera nel loro lontano monastero, per sintetizzare la potenza mistica dell’immagine al servizio di un potere coloniale apparentemente così scisso in politico e religioso e invece così simile nei fini e nelle tecniche usate per ottenerli. Un aneddoto, narrato all’interno di un altro aneddoto nell’insistito e brillante procedere per collegamenti e associazioni del montaggio di Verhoustraete, che parla di un ragazzo «guarito» dalla sua dissolutezza mostrandogli con una lanterna magica un’immagine del padre riemerso dal regno dei morti per rimproverarlo e imputare ai suoi comportamenti la sua tristezza. Con la proiezione di un’immagine «breve ma duratura», capace di instillare nel ragazzo la stessa paura degli europei di fronte ai mostri di Robertson pronti ad apparire all’improvviso nella notte fra i boschi, la stessa paura dei primi africani messi di fronte alla lanterna dell’esploratore Livingstone e al coltello alzato verso il sacrificio di Isacco senza prima una spiegazione su come funzionasse il marchingegno e quindi su come la lama non avrebbe mai potuto alzarsi su di loro, e a ben vedere anche la stessa paura, questa volta nuovamente parigina, che la leggenda narrerà qualche anno dopo intorno alla prima proiezione de L’arrivo di un treno alla stazione de La Ciotat dei fratelli Lumière, con il fuggi fuggi generale di una sala terrorizzata dall’idea di poter essere travolta dalla locomotiva in corsa. Una similitudine fra popoli ed esseri umani tanto evidente quanto accuratamente rifuggita, come dice chiaramente lo stesso Verhoustraete nel monologo con cui la sua voce fuori campo guida all’interno del lungo e articolato discorso della sua nuova creatura cinematografica, dagli uomini del tempo, troppo impegnati – e troppo plagiati dalla propaganda, dalle immagini atte a vendere il Congo al pubblico costruendone una ben precisa narrazione – a convincersi della propria superiorità sui «selvaggi» per rendersi conto o per lo meno per essere disposti ad ammettere di rispondere a identiche convenzioni, semplicemente traslate su un’altra scala, su un’altra forma sociale, su un’altra mentalità culturale, su altre immagini che con la medesima arbitrarietà si considerano di un valore sacrale superiore a quello di un idolo Minkisi. Identici, magari, anche nell’estrema povertà interna delle Fiandre, e ugualmente pronti a ignorarla e a nasconderla sotto al tappeto. Una prevaricazione, un razzismo e un classismo destinati a non estinguersi nei crimini incommentabili (e solo pochi mesi fa, per la prima volta, ammessi con scuse ufficiali da parte della corona belga) del periodo fra fine Ottocento e inizio Novecento, in cui l’allora Stato Libero del Congo dimezzò la sua popolazione (oltre 10 milioni i morti stimati) sotto Leopoldo II monarca costituzionale in patria e invece tiranno assoluto e crudele sullo Stato africano, internazionalmente riconosciuto come colonia personale da depredare liberamente di avorio e caucciù schiavizzandone, terrorizzandone, uccidendone e martoriandone la popolazione fino a usare le loro mani amputate come sostanziale moneta, ma al contrario a estendersi fino a oggi per le generazioni, che facendosi forza dell’approccio scettico al colonialismo da parte della popolazione belga hanno di fatto finito per rinnegare ogni possibile responsabilità.
È per questo che Broken view, presentato nel concorso della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 2023, riassume tutto sommato in breve le efferatezze degli anni di Leopoldo, per concentrarsi anche e soprattutto sul mezzo secolo abbondante in cui lo Stato del Belgio, una volta tolto il dominio sulla colonia al proprio sovrano inchiodato dalle foto del reportage The Congo Atrocity di Alice Seeley per annetterla al proprio Parlamento e ai propri principi di costituzionalità, ha esteso fino al 1960 sul Congo Belga. Anni meno sfacciatamente criminali eppure sempre di colonialismo e sfruttamento, e sempre con un’immagine e una rappresentazione atta a condizionare l’opinione pubblica, reticente agli echi imperiali ma evidentemente non a sufficienza per potersene lavare le mani senza portarne i pesi atavici sulla coscienza. Fino a ritrovare nei filmati privati dello zio che in Congo fu per anni ufficiale medico lo stesso sguardo e la stessa costruzione delle produzioni del governo, e nelle immagini governative gli stessi barlumi di sorriso e gli stessi dettagli di vita vissuta sfuggita al controllo del fotografo dei filmati dello zio. Del resto, ogni immagine è intrinsecamente esibizione, rappresentazione atta a creare un’identità. Quella coloniale, concentrata a creare il mito della vita primitiva e pagana, fatta di cannibalismo e trivialità selvaggia, di uomini neri che solo la missione dei Paesi più ricchi e civilizzati può correggere e trasformare in reale civiltà e che le fotografie di regime mostrano nei bambini che diventano diligenti nelle scuole e nei genitori che diventano laboriosi operai specializzati di campi e filatoi, ma anche quella delle parate militari che rinsaldano lo spirito d’appartenenza nel muoversi all’unisono, o quella delle rievocazioni religiose in cui, oggi come ieri, con i corpi o con i vetrini da proiettare, si recitano i soldati e la passione di Gesù durante la Via Crucis. Mentre la (stessa) folla si accalca a filmare coi cellulari ma anche a credere, a sentirsi nel giusto e parte di qualcosa, e a sua volta diligentemente recita la sua parte di pubblico, quello proletario a bordo strada e le stratificazioni di quello aristocratico che guarda, progressivamente sempre più in alto, dalle finestre, dai balconi e dalle terrazze. Verso quello stesso soprannaturale imposto ai coloni, magari insieme alla scienza usata per affascinarli mostrando loro il progresso, e così iniziare a convertirli al cristianesimo, secondo lo stesso schema di conversione e civilizzazione interno all’Europa fra le classi borghesi e il proletariato. In qualche modo per rubare loro l’anima, che poi è quello che da sempre, leggenda o realtà, in occidente come in Africa, fa pure la fotografia, specchio degli guardi davanti e dietro alla macchina che la scatta. Il sopravvivere di colonizzato e colonizzatore come fantasmi, il loro negativo, la loro fantasia che «diverge e converge attorno all’immagine costruita», in un film multiforme, affascinante, intelligentissimo, strabiliante come l’illusione di una stereoscopia che inganna l’occhio alternando le due bidimensionalità dei vicini ma differenti punti di vista. Un fiume in piena di oggetti e formati, di parole e di idee, di storie e di riflessioni sul senso e sui significati delle immagini. Di un montaggio che è un quaderno di appunti, e di un senso storico e politico con cui non smettere mai di osservare. La necessità chimica, storica, antropologica e intellettuale di saper sviluppare, ancora e ancora, le visioni e i pensieri. Fino a riuscire a de-colonizzarli, magari, o per lo meno a ridiscuterli in un contesto del tutto nuovo.
Marco Romagna