7 Settembre 2024 -

BROKEN RAGE (2024)
di Takeshi Kitano

Alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 2024 si è avuta l’ennesima prova dello status di regista/interprete di “culto” raggiunto negli anni da “Beat” Takeshi Kitano presso le platee cinefile dell’intero globo terracqueo. Giovani e un po’ meno giovani, spettatori che ne seguono il lavoro fin dalla fine degli anni Ottanta con Violent Cop (o, ancora prima, con gli estratti da Takeshi’s Castle proposti dalla Gialappa’s Band in Mai dire banzai) e ragazzi che magari sono partiti dalla trilogia di Outrage o dalla prova attoriale iconica in Battle Royale per poi andare indietro, si sono trovati affratellati nelle ovazioni che hanno accompagnato e concluso ognuna delle proiezioni al Lido di Broken Rage, nuova opera del Nostro presentata Fuori Concorso e nettamente fra i migliori film dell’intera edizione. Continuando un percorso di riflessione su e intorno al proprio cinema e alla propria immagine intrapreso a partire da Takeshis’ (che arriva, non a caso, dopo i successi di critica e pubblico di Dolls e, soprattutto, Zatoichi) e proseguito con Glory to the Filmaker!, Kitano in quest’ultima opera estremizza ancor più il discorso, mettendo in scena la (finta) difficoltà di licenziare un’opera dalla durata decente e la mancanza di idee, un po’ come faceva Nanni Moretti nel simile e diversissimo Aprile, realizzato e presentato nell’epoca in cui Kitano era Leone d’Oro in carica a Venezia con Hana-Bi, per chi scrive il suo capodopera. Se si parla di unione tra tragedia e commedia, di legame indissolubile tra i due estremi per eccellenza della drammaturgia classica, si può infine citare Woody Allen e il suo Melinda & Melinda come ulteriore aggancio per far comprendere al lettore su quali fondamenta si posizioni l’ultima folle opera del cineasta e interprete nativo di Tokyo. Se nel film del maestro newyorkese gli estremi tra i diversi bivi dell’esistenza risultavano però più smussati e inevitabilmente compresi tra la variante alta e bassa della classe borghese americana, Kitano usa la sua stessa icona per sottolineare l’assunto di sempre: da una parte il killer infallibile e spietato (ma anche il Takeshi Kitano regista “serio”, ma anche l’attore-corpo-installazione vivente a cui, come a Gerard Depardieu, basta ormai un passo ormai strascicato o un cenno quasi impercettibile di quel volto ormai di gomma per esprimere tutto ciò che ha da dire), e dall’altra la sua pasticciona stilizzazione slapstick da sempre incarnata da Beat Takeshi, il comico televisivo, la macchietta, la caricatura, la parodia. Due metà dello stesso personaggio che contengono lo stesso grado di deformazione ed esagerazione, seppure in quest’ultima sia immediatamente percepibile perché spogliata fin da subito dall’aura “eroistica” che ammanta, invece, il personaggio principale del gangster/yakuza movie di un’ultracredibilità semiotica, conferitagli da segno, gesto e modi di entrare in scena, e costruitagli addosso dall’occhio registico.

E quindi ecco sessantadue minuti divisi in trenta più trenta più un piccolo epilogo, che ironizza parimenti all’interno e all’esterno dell’universo kitaniano, sbertucciando ad esempio la moda degli spin-off (e degli spin-off degli spin-off) del cinema industriale occidentale e, ma qui avvertiamo del rischio di sovrainterpretazione, persino il drastico cambio di atmosfere e toni tra un capitolo e l’altro dell’universo cinematografico marvelliano. A chiudere e a caricare ancora di più il senso di sberleffo d’autore, una chat “privata” riportata a tratti in pieno schermo che mette le mani avanti e anticipa ogni critica che uno spettatore non sintonizzato sull’atmosfera generale del lavoro potrebbe rivolgergli. L’impressione è, appunto, quella di un controllo ormai totale su ogni aspetto artistico e/o contenutistico veicolato dal film, specie in opere come questa in cui, nascondendo il tutto sotto la lente della riflessione autoconsapevole (e teoricissima nel raccontare ancora una volta la fine del proprio cinema, che oramai può solo ripetersi all’infinito oppure diventare aperta parodia di se stesso fino al ritorno agli albori slapstick della settima arte), ci si mette a nudo e ci si prende in giro. In più, come si diceva, dominando il tutto attraverso il (proprio) corpo attoriale di 77enne, curvo, un po’ sovrappeso, capace di nasconderlo sotto una perfetta giacca di sartoria così come di esibirlo spudoratamente, e quasi con la stessa grazia. Due aspetti che distanziano irrimediabilmente, per tornare al paragone soprastante, il cinema di Moretti da quello di Takeshi Kitano, e le bordate di umorismo non-sense tipicamente nipponico che in Broken Rage conferiscono per l’ennesima volta all’autore/attore giapponese quella dimensione da clown Augusto che manca all’altro, irriducibilmente clown bianco (che stralunata coppia comica da buddy movie sarebbero? Forse non è ancora troppo tardi per pensarci, magari facendoli scappare da un istituto per artisti pensionati…).

Diamo anche conto, brevemente, della cornice narrativa, poco più che pretestuosa e completamente scentrata sulle figure che la abitano, a mo’ di ruoli da commedia dell’arte o comiche (non certo a caso) del primo muto (il gangster, lo scagnozzo, il barista, il poliziotto): lo stesso killer a pagamento, detto Topo, è un’infallibile macchina da guerra nella prima parte e goffo più dei Keystone Cops nella seconda, e le stesse situazioni vengono osservate rivoltate, prima come fossimo in Brother e poi come se il set fosse stato posseduto da un Peter Sellers/Clouseau ancora più distruttivo, che è poi da sempre l’incarnazione “Beat” del Nostro, dedito all’exploitation più ridanciana. Fredde esecuzioni e operazioni d’infiltrazione sotto copertura diventano inciampi distruttivi e disastri conclamati, pistole diventano telefoni Samsung, schiene tatuate diventano sosia non appartenenti alla yakuza uccisi per sbaglio, e a far da luogo fuori dal tempo e dallo spazio dove i personaggi s’incontrano il/un “Rick’s Bar” come nella Casablanca di Bogart/Bergman/Fleming, omaggio esplicito e dichiarato (ecco ancora tornare il paragone con Allen, che da apparentemente lontano diventa sempre più vicino), dove si può sentire di sottofondo anche una migliori colonne sonore cinematografiche di sempre, quella composta “in diretta” guardando le immagini del film da Miles Davis per Ascensore per il patibolo di Louis Malle. Casablanca e Malle, comiche Keystone e umorismo nipponico, è questo il calderone citazionista da cui Kitano pesca questo consapevolissimo gioco cinefilo, che cerca di farsi semplice nella fruizione mentre stratifica una citazione e un omaggio dopo l’altro. Da questo punto di vista, quindi, un film più importante di quanto possa sembrare, che ci apre uno squarcio ampio e riconoscibile del mondo posizionato nella testa del regista e ne riporta ogni stimolo direttamente al corpo, che ironizza sulle maschere del kabuki iconizzandole e apparentandole con il mondo manga/anime, fino a unire così una volta di più le tradizioni passate e presenti della propria cultura e del proprio Paese. Glory to the filmaker, dunque, ancora e ancora (e ancora). Fino all’ultimo spin-off, oltre l’ultimo spin-off.

Donato D’Elia

“Broken Rage” (2024)
62 min | N/A | Japan
Regista Takeshi Kitano
Sceneggiatori N/A
Attori principali Tadanobu Asano, Nao Ômori
IMDb Rating N/A

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