Titoli di testa: fra le lettere bianche su sfondo nero che compongono la scritta “Koolhoven’s Brimstone” spicca una “t” dalla forma identica a quella di una croce, ed è questa lettera l’ultima a svanire dallo schermo prima dell’inizio del film vero e proprio. Quella che può sembrare a prima vista (come è successo anche al sottoscritto) una semplice trovata di cattivo gusto di un titolista alla ricerca di un colpo a effetto si rivelerà essere purtroppo, con l’avanzare del film, una preliminare dichiarazione di arroganza da parte di un regista e sceneggiatore fin troppo pretenzioso: Martin Koolhoven, che riscuote da molti anni un enorme successo nella sua patria olandese. Questo Brimstone, una co-produzione franco-olandese inclusa nel concorso della 73esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è un western in lingua inglese, diviso in 4 sezioni dai nomi ambiziosi a dir poco: Apocalisse, Esodo, Genesi e Castigo. Il film narra, con una gestione “post-tarantiniana” dei tempi che si rivela arrogante e vuota quasi quanto i continui riferimenti biblici, del rapporto fra la protagonista Liz (Dakota Fanning), una giovane levatrice muta, e un misterioso reverendo (Guy Pearce) attraverso tutta la loro vita: mentre il capitolo finale segue direttamente l’incipit, il secondo e il terzo sono dei flashback che scavano sempre più all’origine di questo rapporto, fra punizioni medievali, presunte volontà divine e le più viscide perversioni.
La prima metà del film, nonostante alcune scelte abbastanza discutibili, si presenta dignitosamente: la regia e la fotografia sono solide, dai colori che probabilmente cercano di avvicinarsi alle suggestioni de Il petroliere (nella rappresentazione delle chiese e delle fiamme in particolare) e lancia – al netto di qualche intestino stretto intorno al collo con un inconsapevole ridicolo che pervade quella che dovrebbe essere una violenta tragedia – delle discrete premesse narrative e tematiche per lo svolgimento futuro. Il reverendo è ossessionato dall’idea di punire Liz per delle colpe ancora ignote, e la perseguita in nome della legge divina e della sua autorità. Il racconto a ritroso della vita della protagonista è costellata da un’escalation di torture a abusi, a partire dalla caccia alle streghe che subisce nel primo capitolo, risalendo poi nel secondo alla sua vita da prostituta per poi approdare, col racconto della sua infanzia, al terzo indifendibile capitolo.
L’incarnazione perfetta degli evidentissimi problemi della seconda metà del film è il personaggio interpretato da un mal piazzato Guy Pearce: dal terzo capitolo la sua presenza in scena diventa costante, al punto da superare forse quella della protagonista, rendendo palese l’involontaria ridicolezza del suo personaggio. Egli non è altro che un accozzaglia di banalissimi stereotipi sulla crudeltà del clero e del patriarcato, ricoperta da una caratterizzazione troppo sopra le righe a cominciare dal suo costante ritorno e della sua simil-immortalità che fanno pensare a una brutta imitazione del Micheal Myers di Halloween. La recitazione di Pearce, incarnazione dello stereotipo ben più che del male, è monotona, esagerata, ai limiti del caricaturale, e potrebbe anche essere accettabile se il film non si prendesse costantemente troppo sul serio, ma esso trasuda arroganza da ogni poro, a cominciare dalla ridondante farcitura di simbolismi e citazioni bibliche infilati a forza da Koolhoven nel suo film. I momenti di rara bruttezza che il regista ci regala sono innumerevoli e sempre più frequenti: l’improvvisa scena dell’impiccagione sulla latrina, l’irruzione come un deus ex machina alla porta della chiesa della silhouette di un eroico bandito (Kit Harington), circondata da un’orripilante luce divina dal colore bianco-azzurro, per arrivare infine a un epilogo non solo intriso di becero pseudo-femminismo che giunge dopo aver passato quasi due ore e mezza sul crinale della misoginia, ma anche totalmente superfluo e stucchevole. Anche stando lontani dai picchi assoluti di cattivo gusto, ci si rende conto purtroppo che i pochi spunti interessanti vengono ripetuti all’infinito, al punto da diventare totalmente sterili (basti pensare alle ben tre scene di impiccagione presenti nel film, compresa quella sopracitata), mentre le scelte stilistiche e narrative di Koolhoven, dalla lenta carrellata verso il materasso insanguinato dopo lo stupro in giù, diventano sempre più fastidiose.
Brimstone è sì un film di alti e bassi, ma questi ultimi rivelano una tale pretenziosità da rompere ogni possibile sospensione di incredulità da parte dello spettatore, che si trova a sentirsi sempre più irritato e preso in giro. Koolhoven si rivela incapace di gestire il tono del suo lavoro, e spreca ogni sua risorsa per darsi al puro autocompiacimento, fra violenza e perversione gratuite immerse nella peggiore retorica su tematiche religiose e sociali, dando vita a un’opera forse a tratti anche godibile, ma condannata dalla sua arroganza a vagare nel girone dei film preferibilmente evitabili. Come un film apocalittico di Ned Flanders.
Tommaso Martelli