“Brat” vuol dire “fratello”, mentre “Dejan” è il nome del protagonista di quell’oggetto arcano che è il terzo film del georgiano Bakur Bakuradze, presentato in concorso internazionale al Festival del film Locarno 2015. Dejan Stanic è un generale (ispirato a Ratko Mladic), criminale di guerra durante il conflitto nei Balcani che si è rifugiato nei decenni successivi in isolamento tra una base militare e l’altra. E Stanic soffre l’alienazione e l’isolamento come una vera e propria punizione: ne subisce i ritmi, soffre per la sua lentezza e subisce la lontananza da casa con dolore.
Quello che rimane misterioso nella visione è lo sguardo del protagonista, enigmatica figura che è disumana nella Storia e umanissima nella storia, e che viene trattata dal regista con il tatto di un documentarista che, silenzioso, decide di analizzarne le vicissitudini da sotto la pelle. Stanic è un vero e proprio antieroe demoralizzato, e non a caso la maggior parte del film è incentrato su come osserva l’universo che lo circonda. E la macchina da presa di Bakuradze si concentra sull’osservare qualcuno che osserva: nel metacinema niente è più importante dello sguardo, e l’autore qui riesce a mostrare un mondo mostrando chi lo guarda e non il mondo stesso. Poi questo mondo non è che sia completamente definito: ci sono la corruzione, il dramma e la follia umana cristallizzate nella tristezza di un isolamento che confina le possibilità dell’umanità e magari anche della redenzione di un personaggio tragicamente costretto a diminuire lo spazio della propria comunicazione; però l’opera è assolutamente carente di una qualche coesione, di un qualche filo rosso connettivo e completante, per non dire di un’ambientazione geografica che aiuti a comprendere la visione di Bakuradze oltre il collasso puramente corporeo del personaggio-mezzo con cui veicola il proprio “ritratto”. È inutile girare attorno al fascino del non-visto nel Cinema quando ciò che è nell’inquadratura non è solo il corpo, facendo trasparire dunque un’estetica non puramente carnale, ma anche riflessiva ed emozionata. L’autore tenta di aiutare la definizione di quello che è Brat Dejan usando un ripetuto riferimento metacinematografico che lo mostra negli spazi in cui è girato il resto del film, ma, tranne che nella sequenza iniziale in cui il regista anticipa una delle scene più potenti del film imitandone il movimento, l’idea risulta enigmatica, quasi masturbatoria nel proprio silenzioso egocentrismo poco spiegato.
Ma un altro aspetto da mettere in discussione è senza dubbio quello etico. L’idea di mostrare da un punto di vista umano un personaggio che invece dovrebbe essere dipinto negativamente è qualcosa che è già stato fatto (esempio illustre e popolare: La caduta – gli ultimi giorni di Hitler (2004) di Oliver Hirschbiegel), ma qui forse la vera domanda, più che “è giusto umanizzare Mladic/Stanic?”, è “ha ragione Paolo Benvenuti quando dice che lo scopo del cinema storico dev’essere educativo?”. Penso di parlare per tutta la redazione quando dico di “no”, andando quindi contro la visione (forse) oggettiva che Bakuradze mette in scena nello sminuire il dramma politico di fronte a quello più ampio e alto del dramma esistenziale. È vero anche che il cinema storico non dovrebbe neanche essere puramente didascalico, e in questo il film riesce perfettamente, non solo a partire da come sono trattate le vicissitudini del personaggio ma anche da come viene davvero costruita una tangibile e misteriosa non-storia che riesce, in qualche modo, a rapire e incuriosire nella completezza della propria durata.
Nicola Settis