BORIS SANS BÉATRICE (2016), di Denis Côté
C’è un paradosso fondamentale al centro di Boris sans Béatrice, nuovo lungometraggio del canadese Denis Côté presentato in concorso a Berlino (la seconda volta per il regista dopo il coeniano Vic + Flo ont vu un ours), ed è questo a decretare il fallimento maggiore di un’opera senz’altro affascinante a livello estetico ma inesorabilmente “vuota” sul piano emozionale. Quel paradosso è legato allo stile di Côté, regista eccentrico e “fuori formato” le cui opere tendenzialmente evitano i concorsi e si annidano nelle sezioni collaterali dei festival, da Cineasti del presente a Locarno (e prima ancora quella che un tempo era la sezione video) al Forum della Berlinale. L’autore di Curling e Bestiaire è, infatti, un cineasta tendenzialmente poco interessato alla narrativa, che si esprime al meglio attraverso una serie di immagini forti non per forza legate ad un nucleo contenutistico ben definito (vedi il già citato Bestiaire, che procede per associazione di idee e completamente senza dialoghi), con la conseguenza che i suoi personaggi, per quanto intriganti, spesso divertenti e ben interpretati, non richiedono un particolare coinvolgimento emotivo da parte dello spettatore. Un coinvolgimento che si rivela invece necessario per Boris sans Béatrice, in particolare per capire ed assimilare le sofferenze del protagonista maschile, e che Côté ci nega in nome di una continua ed irritante ricerca del grottesco.
Ironia della sorte, il regista pecca di quella stessa arroganza di cui accusa Boris, ma non ha una presenza semi-divina (con il volto di Denis Lavant) a metterlo in guardia. Pertanto assistiamo alla lenta agonia spirituale di un uomo, fin da subito odioso, la cui unica ancora di salvezza è la moglie; il tutto mostrato con un distacco morboso, quasi pornografico, che rende impossibile qualsia empatia con il “povero” Boris, che si parli in francese (normale o québecquois, a seconda dell’interlocutore), inglese o russo. Solo due momenti possono dirsi veramente riusciti: uno è il succitato cameo di Lavant, l’attore-feticcio di Léos Carax che si avvale di una dizione straniata al punto giusto, e quindi compatibile con la mise en scène di Côté, ma che ha anche il problema di manifestarsi – fisicamente – solo a fine film, quando ormai il danno è stato fatto, ripetutamente; l’altro è l’apparizione, volutamente caricata e “offensiva”, del regista Bruce La Bruce, ancora più folle e superbo di Côté, nei panni del primo ministro canadese, abbozzando un tentativo di satira che in altre circostanze sarebbe stata una punta di diamante a livello comico, ma che qui è solo un effimero interludio minimamente godibile all’interno di una tragedia spocchiosa che rasenta in più punti l’insopportabile.
A farne le spese sono soprattutto gli interpreti, che attraversano questo Inferno rurale canadese con una dedizione nei confronti della quale la classica indifferenza empatica del regista è un affronto. In tal senso, l’inquadratura più emblematica di Boris sans Béatrice è proprio quella iniziale, in cui Boris, vestito alla perfezione come sempre, è completamente solo in un campo di grano (con un elicottero che si avvicina). Abbandonato al suo destino, come il film, con un’immagine d’apertura molto suggestiva che però cela un’anima nerissima e gelida, parto creativo di un autore il cui egocentrismo dichiarato (chi era a Locarno nel 2010 si ricorderà del suo esilarante/terrificante discorso di ringraziamento quando vinse il premio per la regia) questa volta ha costituito un ostacolo per lo più insormontabile anziché un vantaggio. A chi volesse comunque avventurarsi in questo mondo malato e orripilante ricordiamo le parole di Dante, che ci sentiamo in dovere di citare visto il nome della protagonista femminile: “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.”
Max Borg