20 Febbraio 2025 - e

BLUE MOON (2025)
di Richard Linklater

Blue moon
Now I’m no longer alone
Without a dream in my heart
Without a love of my own
Rodgerts-Hart, Blue Moon

«I love you, just not in that way» (ti amo, ma non in quel modo) è la frase che, in mezzo a un un fiume in piena di tantissime parole, spezza il cuore nel nuovo Blue Moon di Richard Linklater, e in un certo senso racchiude tutto il senso del kammerspiel con cui l’autore texano, undici anni dopo Boyhood, torna a brillare nel concorso principale di una Berlinale. È il 31 marzo 1943, e nel ristorante Sardi’s Bar di New York (set verosimilmente ricostruito in Irlanda, Paese co-produttore del film, dalla scenografa Susie Cullen), un buffo omino continua a bere bicchieri su bicchieri di bourbon al bancone di un bar: è il mirabile paroliere nonché autore di musical Lorenz Hart (un gigantesco Ethan Hawke, abbassato di statura e imbruttito con scarsa igiene orale e capelli un po’ unti riportati sul cranio), che si ritrova a chiacchierare con il barista, il pianista e i vari astanti mentre aspetta una giovane ragazza della quale pare essere innamorato, Elizabeth Weiland (Margaret Qualley), alla festa organizzata dopo la prima di Oklahoma!, musical a firma di Richard Rogers (Andrew Scott) storico collaboratore del librettista (e suo grande innamoramento segreto e mai corrisposto), questa volta però per la prima volta in comunione con Oscar Hammerstein II (Simon Delaney) con il quale stringerà poi il sodalizio che, fra Broadway e Hollywood, tutti noi conosciamo. Una notte, probabilmente la peggiore nella vita di Hart, in cui sentirsi più che mai tradito e rifiutato da quella bellezza (femminile, maschile, artistica, umana) che spasmodicamente insegue da tutta l’esistenza, probabilmente geloso per un successo che sarebbe potuto e forse dovuto essere suo, e in qualche modo sottostimato dallo show business del tempo che, pur riconoscendone e tentando costantemente di sfruttarne l’indiscutibile genio, lo tiene ai margini mentre dimostra di ricordarlo principalmente per la canzone – Blue Moon, appunto – che più detesta in tutta la sua produzione.

La macchina da presa, nel suo insistito gioco di campi e controcampi, si muove costantemente su Hart/Hawke cogliendo tutte le sue sfumature, i suoi gesti, i suoi movimenti e i molteplici aneddoti cha ha da raccontare al bartender Eddie (Bobby Cannavale) che pazientemente lo ascolta, e mentre tenta in qualche modo di limitare i suoi bicchieri sembra uno dei pochi personaggi realmente in empatia con lui. Tutto il film, perfettamente calibrato in una straordinaria sceneggiatura dialettica e raffinatissima nei continui giochi di parole del suo americano anni Trenta, è chiaramente incentrato sull’interpretazione di Hawke: Hart si muove in un unico spazio con una molteplicità di personaggi che ruotano intorno a lui, tutti che indistintamente riconoscono la genialità della sua mente senza pari ma allo stesso tempo provano una specie di “repellenza” per l’essere umano, coinvolgendolo ma in realtà escludendolo dal contatto fisico e dal cuore, avvicinandosi per carpirne il genio ma al contempo trattandolo come un reietto da tenere a distanza di sicurezza. Una repulsione che diventa un aperto allontanamento quando il corpo di Hart, da sempre attratto fino all’amore dall’ideale stesso della bellezza e del talento, e segretamente bisessuale in un mondo ancora troppo indietro per poterlo accettare, si avvicina troppo a quello del musicista (ex-)sodale Richard Rogers il quale evidentemente indietreggia, non volendo in alcun modo essere toccato, o quando Hart pone le mani sul collo di Elisabeth per ammirarne la collana e lei palesemente si scosta infastidita… Decisivo è in tal senso il dialogo tra i due, in cui Hart vuole sapere, da buon «amico» tutti i dettagli dell’avventura amorosa della ragazza con un giovane, per poi esprimere i suoi sentimenti e restare amareggiato e deluso di fronte alla già citata frase «ti amo, solo…non in quel modo». Una frase evidentemente ricorrente nella sua vita, una doccia fredda dietro l’altra.

Tutti i personaggi del film in realtà vogliono “prendere” qualcosa da Hart: a partire da Elisabeth che vuole essere introdotta da lui nel mondo del teatro fino allo scrittore di libri per bambini che si trova per caso da Sardi’s e che, dopo la conversazione con Hart, tira fuori un taccuino per appuntarsi i suoi suggerimenti. Perché se è vero che tutti ne riconoscono l’assoluto genio e le intuizioni brillanti è altresì vero che nessuno di loro è in grado di amarlo in quanto essere umano, rimarcando la profonda solitudine di Hart, in balia dell’alcool e della depressione, e destinato – come dall’unica prolessi introdotta sin da subito nel prologo del film fra un vicolo oscuro e la notizia data dalle radio – a morire di lì a pochi mesi, il successivo 22 novembre, ubriaco e solo in mezzo a una strada. Un artificio temporale apertamente cinematografico con cui Linklater contraddice sin da subito quelle che saranno le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione per il resto apertamente teatrali del grande atto unico di Blue Moon, ma soprattutto ragiona ancora una volta sul tempo, quello reale di una serata, quello cristallizzato da una rappresentazione, quello sognato e desiderato ma non veramente vissuto, quello che sarebbe potuto essere e che invece non è stato. Quello di una vita (e di una carriera) in realtà forse già esaurita fra i troppi bicchieri, i continui rifiuti e il ritrovarsi spettatore anziché protagonista del successo di quello che fino a un minuto prima era stato il suo musicista. Come a rendersi conto all’improvviso di non esistere (più) nell’immaginario collettivo, proprio come quella foto mancante che lo ritraeva fra le (tante) celebrità appese alle pareti e che invece ora è scomparsa dal muro del bar, e quindi in qualche modo di non avere più senso. Mentre, un discorso dopo l’altro, il teatro e il cinema del tempo si sgretolano nelle loro ipocrisie, nelle loro ingiustizie, nei loro cannibalismi, nei loro non-amori interessati. Nel non poter fare a meno di ricominciare ogni volta da capo, come impossibilitati a tornare a casa. Il risultato è una commedia che narra di un personaggio come Lorenz Hart in tutte le sue sfumature, lontanissima dal classico biopic ma anzi concentrata solo su una notte fondamentale della sua vita, come una sorta di nastro di moebius con cui aprire infinite riflessioni su temi quali l’amicizia, l’amore e la solitudine ma anche il talento e la parabola del successo, attraverso la centralità assoluta di una parola che, come sostiene Hart stesso, talvolta è più potente di qualsiasi possibile immagine o musica.

Brunella De Cola, Marco Romagna

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