«A fare tre note sul sax si impara in pochi minuti, ma per farle uscire bene ci vogliono anni». Perché la musica è una questione di passione, di allenamento costante, di continui perfezionamenti, ma soprattutto di vissuto, di cuore, di sentimento, di un dolore, fisico ed emotivo, dal quale è necessario lasciarsi travolgere per poterlo poi trasmettere e propagare nelle vibrazioni di ogni singola nota. Ancor di più nel jazz, con i suoi assoli improvvisati e con l’unicità di ogni performance, con la sua ricerca dell’anima e del sentimento più ancora che della tecnica, con quella totalizzante e suprema emozione che fa riversare ogni singola fibra del corpo nello strumento per diventare estasi mistica, trasporto, volo, brivido, sogno ad occhi aperti di chi suona e di chi ascolta. Con quelle lunghe ore passate da soli a soffiare nell’ancia del sassofono sotto il sole e sotto la neve, oppure di fronte a una tastiera dalle potenzialità infinite, o ancora tamburellando tutto ciò che capita a tiro come un bisogno irrefrenabile, come una necessità espressiva di cui non poter fare a meno, come l’unico modo per sentirsi vivi. È in questo senso che Blue Giant, splendida trasposizione anime a firma di Yuzuru Tachikawa dell’omonimo manga di Shinichi Ishizuka, presentata a Rotterdam 2024 qualche mese dopo l’uscita in sala in Giappone e in attesa che Anime Factory la distribuisca anche in Italia, innesta il suo coming of age di tre giovani seinen aspiranti jazzisti in un film musicale che ha intrinsecamente tutti i caratteri e la “retorica sana” di un film sportivo, fatto di quello stesso sudore, di quegli stessi muscoli intorpiditi, di quello stesso fiato mozzato al termine di un allenamento massacrante; fatto di quello stesso talento e di quello stesso impegno con cui giungere alle medesime soddisfazioni, fatto di quella sana arroganza giovanile per la quale credere fino in fondo in se stessi contro tutto e contro tutti, fatto di quella stessa fame di crescere sempre, giorno dopo giorno, fino a diventare i migliori. Un film sul jazz, che ne comprende fino in fondo – forse ancor più del Pixar Soul di Pete Docter, al quale è impossibile non pensare specialmente quando Blue Giant cambia all’improvviso (e coerentemente al jazz, appunto) tecnica per alternare all’animazione tradizionale qualche visionario inserto in 3D – e ne sviscera il senso più intimo di vita, di Resistenza, di invocazione e di morte, e che nella nascita ed evoluzione di un trio innesta riflessioni tutt’altro che banali sull’affiatamento, sulla fiducia, sull’amicizia, sul sacrificio per ottenere e rispettare un qualcosa che si ama, sulla passione e sull’intensità dell’esibizione, sul rapporto fra cuore ed esperienza, ma anche sul passaggio dalla campagna alla metropoli, sul senso di vuoto da riempire con un assolo e sulla magia inspiegabile di un amalgama sonoro, di un’intuizione solistica, dei continui passaggi fra lo stile (e quindi l’anima) di un musicista e quello (/quella) del suo compagno di palcoscenico.
Non è certo un caso che Blue Giant decida di concentrarsi sulla seconda parte della prima serie del manga, lasciando intelligentemente a una sorta di documentario dal futuro, che appare con le sue interviste ai personaggi ormai invecchiati nelle soggettive desaturate di una videocamera (ed è ancora una volta I, Tonya…), il compito di punteggiare lo scorrere del racconto tornando indietro a quel concerto visto da ragazzino e alle prime esperienze con il sax tenore del protagonista Dai Miyamoto, per poi anticipare il suo brillante futuro come musicista fra i più apprezzati al mondo. Ciò che interessa al film di Tachikawa è il momento-cardine in cui Dai, al tempo diciottenne sassofonista per lo più autodidatta, decide di trasferirsi dalla minuscola Sendai alla gigantesca Tokyo, dove incontrerà il coetaneo e tecnicissimo pianista Yukinori Sawabe e, dopo essersi installato in casa del giovane studente compaesano Shunji Tamada, mai avvicinatosi prima a uno strumento musicale, scoprirà in lui quello stesso fuoco sacro per cui farne il batterista dei JASS, il primo gruppo che lancerà Dai verso l’Olimpo jazzistico del Giappone (per poi farlo allargare, nei successivi fumetti Blue Giant Supreme, Blue Giant Explorer e Blue Giant Momentum, ancora in produzione, prima a quello dell’Europa e poi a quello definitivo degli Stati Uniti). Tre musicisti dalla formazione completamente differente, fra chi suona praticamente da sempre, chi da relativamente poco e chi non ci aveva mai nemmeno pensato, eppure allo stesso modo folgorati dalla magia del jazz, compagni di viaggio perfettamente consapevoli che la loro unione non sarebbe durata per sempre e magari in disaccordo sull’essere o meno pronti per esibirsi, ma non per questo meno impegnati nella ricerca di un affiatamento totale in cui essere la prosecuzione perfetta l’uno dell’altro, in un piccolo miracolo ritmico e musicale sempre unico e irripetibile, nel deflagrare sonoro dell’emozione più pura, nell’esplosione di una stella rara, una Gigante Blu così brillante da pulsare nel cielo di tutti i colori. Momenti, quelli dei provini, delle prove da soli e poi insieme, e ancor di più delle esibizioni su palchi sempre più prestigiosi, in cui Blue Giant, forte di uno straordinario score composto, arrangiato ed eseguito dalla talentuosissima pianista Hiromi Uehara, coadiuvata da Tomoaki Baba al sax e Shun Ishiwaka alla batteria, innesta gran parte della sua meraviglia visiva, fatta di flashback e di stralci di vita che passano improvvisi come un dolore da soffiare via in un accordo, di esplosioni di luce e di colore, di sogni e di fluidi magici che passano dagli strumenti a chi ascolta. Un mondo-altro di tastiere, di campane d’ottone e di bacchette di legno che si espandono nel bianco e poi nell’arcobaleno, verso l’infinito, verso altri pianeti, verso altri mondi che solo la musica e l’animazione possono (far) visualizzare e rendere immagine, virtuosismo, estasi, incanto. Sentimento.
Un amore supremo, per citare assolutamente non a caso John Coltrane e il suo principale album capolavoro dedicato direttamente a Dio (del quale di recente, fra le righe della sua consueta lettura impietosa e dolorosa della sociologia siciliana, ha già avuto modo di dire parecchio Franco Maresco nel suo ultimo Lovano Supreme), che è l’essenza stessa del jazz, dell’ascoltarlo e del suonarlo da superprofessionisti così come da semplici amatori, uniti in una sorta di comunicazione universale che non ha bisogno di parole, ma che si esprime attraverso una nota, un cambio, un saliscendi, un fremito, un grido di dolore o forse di inarrivabile gioia. Quel brivido che muove ogni singolo atomo di Dai, nel momento in cui lascia che sia il sassofono a portarselo via in una sorta di incantesimo estatico, trovando nelle profondità più recondite di se stesso, sopra un prato o sotto un ponte così come su un palcoscenico, la nota giusta e il fiato con cui portarla a vibrare. Quell’innamoramento improvviso e totale che spinge il totale dilettante Shunji, seppure destinato a tutt’altra vita, a metterci tutta l’abnegazione nel voler imparare e migliorarsi più in fretta possibile fino a diventare a tempo di record un ottimo batterista. Quel trasporto che invece Yukinori, al contrario già esperto e unico in grado di leggere un pentagramma, ma così perfetto nel far correre le dita sui tasti del suo pianoforte da risultare in fin dei conti freddo, «noioso», dovrà trovare e lasciare emergere dal fondo dei suoi occhi per sbloccarsi e far sbocciare definitivamente il suo talento. A costo di dover tornare al ricordo doloroso di un amore perduto, alla depressione, alle lacrime, all’abbandono, al ritorno, magari alla tragedia. A un’urgenza espressiva così bruciante che poco importa perfino di un braccio bloccato: basta e avanza l’altro, la musica non si può fermare, così come non si può fermare l’amicizia, l’essersi trovati, la condivisione di un progetto. Ciò che conta è l’ardere della passione, è la purezza del sentimento, è la sincerità di un pianto. È il credere intimamente nel dio della musica e nel dio del jazz, così come ci crede e lo professa con la sua intera parete di vinili la barista Akiko, personaggio centrale nel mettere il suo locale di scarso successo a disposizione dei tre musicisti per le prove, così come a ricucire le fila fra loro quando hanno bisogno di una spinta o di un sostegno. Intimamente convinta del loro talento e totalmente votata alla causa, pronta a proteggere i tre ragazzi da un mondo di squali sotto forma di agenti e impresari, e pronta a sorreggerli (anche letteralmente) nel sangue e nel sudore della loro ascesa verso il palco tanto agognato del So Blue, e poi verso l’infinito del futuro, del fuori campo, dell’impossibile diventato possibile, anzi tangibile. La nascita vis(su)ta in diretta della più abbacinante fra le stelle. Destinata a brillare sempre di più fino all’eternità, ma che dal suo bagliore assoluto non potrà mai dimenticare e tradire il suo percorso. Lo suonerà ogni singolo giorno, semmai. Sempre più in alto, per andare sempre più in profondità.
Marco Romagna