2 Giugno 2017 -

BLOWUP (1966)
di Michelangelo Antonioni

«Il fotografo di Blowup, che non è un filosofo, vuole vedere le cose più da vicino. Ma accade che, ingrandendo troppo, l’oggetto si decomponga e sparisca. Di conseguenza c’è un momento in cui cogliamo la realtà, ma è un momento che passa.»
[Michelangelo Antonioni sul film]

 

La sezione Cannes Classics di quest’anno conteneva svariati titoli splendidi, portando restauri da Jean Vigo a René Clément, da Henri-Georges Clouzot a Max Ophüls, da Bella di giorno di Buñuel a Jean Rouch, da Oshima a Fosse, Servais, Wajda, Imamura, Jane Campion, Robert Redford, Eastwood e Erice. In mezzo a questo indubitabile ben di Dio, spicca comunque Blowup, in un modo o nell’altro. Accolto all’epoca dalla critica internazionale come uno degli apici di Antonioni, se non il suo capolavoro assoluto, fu invece recepito dalla critica nostrana come una perdita di forma, come un film culturalmente fuori posto e fuori tempo, non in linea con la poetica dell’Antonioni che l’Italia ha imparato a conoscere e ad amare attraverso il modernismo sfrenato della disperazione della sua trilogia esistenziale, che sconquassò gli schermi di mezza Europa all’inizio degli anni ’60. Ma Blowup va considerato un progetto separato, che più che fuori tempo è fuori dal tempo, inizio di una seconda trilogia per Antonioni, una trilogia che si potrebbe dire “internazionale” per come penetra tra la cultura inglese e quella americana (in Zabriskie Point, 1970) giungendo infine all’alienazione universale in Spagna e in Africa per Professione: Reporter (1975). Con Blowup, per la prima volta in una filmografia che è partita dal Neorealismo per poi tramutarsi in una sua degenerazione (come hanno fatto in maniere diverse altri, dal personalismo onirico di Fellini al grottesco politicizzato di Pasolini), Antonioni osserva la modernità come filosofia dello sguardo cinematografico e fotografico, puntando meno sul sensoriale e più sull’allegorico, meno su De Chirico e più su David Hockney. Dopo aver portato la propria opprimente incomunicabilità negli spazi storti, spogli e disinnamorati della rivoluzione industriale italiana in Deserto Rosso (1964), usando per la prima volta nella propria carriera il colore e usandolo in maniera rivoluzionaria facendo piombare il mondo in colori freddi, spenti e grigi facendo risaltare dal nulla il rosso e il verde di pseudo-vitalità sfumate, Antonioni con Blowup prosegue la propria ricerca interiore e storiografica di un qualcosa che trascenda il significato, tramutandosi in poeta dei gesti politici e voyeuristici di un Regno Unito tanto distante ed esotico per i cittadini italiani anni ’60 quanto riecheggiante di una crisi dello sguardo comprensibile a livello mondiale – al punto che su Playboy il critico Arthur Knight ne paragonò immediatamente l’impatto, senza peli sulla lingua, a capolavori indiscussi come Quarto Potere (1941), Hiroshima mon amour (1959) e Roma città aperta (1945). La modernità di Blowup, oggi, risulta sempre più devastante e veritiera, a partire da quei titoli di testa che suggeriscono movimento e immagine attraverso le parole, come già mostrando una possibilità di visione oltre i buchi e le fessure della costruzione cinematografica, 40 anni prima che Lynch li mettesse in gioco come neo-bruciature di sigaretta digitali in INLAND EMPIRE (2006).

Per le strade sfreccia una “rebel youth” pre-sessantottina, come quella su cui Godard avrebbe affettuosamente ironizzato a suon di Mao Mao con La chinoise l’anno seguente, e sono già figure iconiche, beatlesiane negli intenti apparentemente anarcoidi ma mascherate come Marcel Marceau o Harpo Marx, rimaste nell’immaginario collettivo al punto da essere citate pure nella cultura pop odierna, come nello splendido video del singolo radiofonico del remix di Robin Schulz di Prayer in C di Lily Wood & the Prick, che mette in scena una manifestazione postmoderna di simili figure: libere, mascherate, che non si nascondono dal mondo pur appartenendo ad ambigue e non descritte sottoculture. È un’immagine (anzi una serie di immagini) il cui impatto iconografico giovanile ha presto fatto presa nel cinema, che sia una satira grottesca sul neo-fascismo che ha cominciato progressivamente a colpire il Regno Unito come Arancia Meccanica (1971) o un flusso pop sulla contemporaneità come Spring Breakers (2012), che sia un prodotto indie del cinema di matrice sociale americana come American Honey (2016) o un ballo spirituale a bordo piscina in Song to Song (2017). Il protagonista, il fotografo Thomas interpretato da David Hemmings, esce da un ritrovo per senzatetto in cui ha scattato fotografie riecheggiando le uscite degli operai filmate dai Lumière, mentre un treno in sottofondo procede silenzioso: sin dall’inizio sembra che la nascita del cinema insegua lo sguardo dello spettatore, come riecheggiando un qualcosa che va messo nuovamente in scena attraverso nuovi dogmi e canoni. È con quest’introduzione che si comincia a penetrare nella vita di Thomas, patetico e ambiguo artista scontroso e probabilmente mezzo misogino (o misantropo), alter-ego di ossessioni cinematografico-registiche che vanno dal cervello al cuore, dall’occhio al membro. Nello studio fotografico, è messa subito in scena la sequenza più celebre del film, quella presente in tutti i poster, riscrittura del simbolismo della verticalità tra uomo e donna in Antonioni: se in Cronaca di un amore (1950) l’uomo e la donna, scendendo per le scale, si inseguivano e si scambiavano, e se in L’avventura (1960) la donna sovrastava eticamente l’uomo e in La notte (1961) entrambi camminavano in salita cercando di fuoriuscire dalle bassezze dell’etica umana (la propria), in Blowup giunge un’altra figura, maschile, quella di Thomas, ovvero un Antonioni rinato, a colori, di un “nuovo mondo”, giunto alla consapevolezza dell’importanza del mezzo cinematografico e dell’immagine, pronto a imporsi sessualmente sulle vittime del suo sguardo calcolatore. Il regista diventa affascinante (come mai?) stupratore, usa l’obbiettivo come estensione fallica imponendosi da sopra sulla donna, orgasma con uno scatto lasciando la modella Verushka per terra, delusa – alienata. Ma c’è una passione, o un tentativo di essa, attraverso quella solitudine abitudinaria, quel rapportarsi uomo-donna che qui sembra svanire nell’etere, privato del suo romanticismo drammatico ed egoico (quello che animava le marionette depresse dei quattro film precedenti di Antonioni), e questa passione si consuma fino a rivelare la propria effimerità nel momento in cui Thomas si ritrova a lavorare nuovamente, dovendo fotografare donne che non vuole fotografare, mostrandosi sempre più rude, immorale. Con uno sguardo pornografico verso il corpo femminile. Il Peeping Tom (1960) di Powell insegna: l’occhio uccide, fa perdere la vitalità, blocca in un istante (o in 24 frame al secondo) i corpi. E se in Antonioni la cosa più importante è la comunicazione, o l’assenza di essa, Blowup mette in scena la crisi di questa comunicazione attraverso le macchine, intuendo già, prima di molti se non di tutti, che il nuovo occhio è quello tecnologico, l’Hal 9000 di 2001 oppure, spostandosi sul digitale, la scatola vitrea del secondo episodio del revival di Twin Peaks (2017).

Ma l’occhio non solo uccide, con il proprio cinismo calcolatore – lo stesso occhio maschile che sovrasta, o tenta di sovrastare, le vittime/donne dal DNA corrotto negli ultimi film auto-critici di Sion Sono, come Tag (2015) e Antiporno (2016). L’occhio vaga, anche, alla ricerca di una poetica che superi questo tecnologico massimalismo, che trascenda. Ed è questo errare, questa ricerca di poetica e quindi questa ricerca di una possibilità di intenti che vada oltre la semplice e banale osservazione sociologica del mondo (cosa che già è, a suo modo, una “via di fuga” dalla banalità di un mestiere commerciale: Thomas vuole abbandonare Londra, come Antonioni ha abbandonato l’Italia per questo film), è insomma quest’atteggiamento a portare il regista/fotografo/Thomas di fronte a un annullamento auto-apocalittico, per l’occhio e per l’immagine filmica stessa; un lungo processo mortifero, l’occhio che uccide diventa anche l’occhio (meccanico) che nota, più dell’occhio umano, i particolari e le particolarità del reale. La macchina fotografica supera il reale, grazie alla fissità. Con un’indagine a ritmo di jazz di Herbie Hancock, i cui ritmi e le cui modalità hanno ispirato film come La conversazione (1974) di Coppola, (sin dal titolo) Blow Out (1981) di De Palma e Blade Runner (1982) di Scott, Thomas riesce a mettersi in contatto con una verità che prima gli aggrada e poi lo atterra, lo sconfigge, lo spaventa. Prima pensa di aver salvato una vita, poi realizza di essere stato inutile. Segue un lungo e sottile flirt con Vanessa Redgrave, la donna al centro del complotto omicida su cui Thomas indaga, che prima si pone come minaccia per l’uomo per poi tentare di sedurlo con fare da femme fatale quando lei si rende conto di entrare nei suoi canoni estetici – la fa posare come una modella per proprie fotografie, ma viene catturata con il sottofondo cartaceo viola della casa del fotografo solo da Antonioni e non dal fotografo, con uno scambio di punti di vista e di estetizzazioni del corpo femminile, prima di un amplesso che viene suggerito ma che non comincia. La Redgrave interpreta un’attrice, che però sotto certi punti di vista è anche una spettatrice, che rimane fuori campo e percepisce, cercando risposte, il lavoro di Thomas, la sua ricerca di un’immagine, di una narrazione, di una soluzione, e vuole una risoluzione del proprio problema, qualcosa che curi il proprio timore di essere incastrata. E lui difatti prova a fregarla per i propri interessi personali artistici. Ed è qui che si presenta una sequenza ambigua che esemplifica la dualità e la chiave di volta del film: due modelle (una delle due è Jane Birkin) vanno a casa di Thomas volendo essere fotografate, ma finisce per esservi anche qua un rapporto carnefice-vittima, in cui uno stupro isterico con intenti scherzosi e infantili sfuma velocemente nel suo esatto opposto, in un gioco chiassoso dai risvolti sessuali. Irrisolto. Una cosa si tuffa nell’altra, e l’alienazione, o forse l’assenza di comunicazione, si esemplifica attraverso questa ambiguità, questa incapacità di esplicitare l’intenzione nell’azione, quest’assenza di volontà sotto i gesti dell’uomo. C’è un ribaltamento, insomma, la tragedia diventa commedia o viceversa, la vittima diventa carnefice o viceversa, il regista non smette di essere regista ma smette, forse, di avere potere in quanto regista, perché non può capire. Deve rimanere nell’irresolutezza, nella consapevolezza, appena sveglio, che forse il suo occhio che uccide ha davvero ucciso e non ha salvato nessuno. Il cadavere spunta, granuloso come i quadri del vicino di Thomas, pittore pollockiano, ed è l’unica cosa che rimane: una foto più grande di questo dettaglio, che sembra una galassia, sembra un qualcosa di ulteriore, superiore, evanescente. E l’irresolutezza si conferma con la scomparsa delle fotografie e delle certezze, una sorta di atto castrante del quale Strade Perdute (1997) di Lynch è un controcampo, con l’assenza delle certezze che diviene compenetrazione col cinema e non privazione di esso.

Lo spaesamento diventa un inseguimento, ma senza riconoscimenti, senza campo-controcampo. Le strade londinesi, prima grigie come gli spazi di Deserto Rosso, sembrano ingabbiare Thomas in un noir pulsante e claustrofobico; lui vaga e si ritrova a un concerto degli Yardbirds, interpretati da sé stessi, con Jimmy Page che sorride. Il pubblico, tra i cui membri vi è Michael Palin dei Monty Python in un brevissimo cameo prima della fama, è prevalentemente e tristemente immobilizzato come in una stasi senza vita, mettendo in mostra in maniera esplicita quello che Thomas è in modo ben più implicito e nevrotico (un immobilista, che osserva la violenza senza comprenderla), e si attacca al manico della chitarra lanciata spaccata da Jeff Beck con un aspro e violento materialismo che è lo stesso che smuove gli uomini tutti, compreso se stesso quando compra all’antiquariato un’elica “per nessuna ragione, perché è bella”. Thomas prende il manico di chitarra, scappa per strada, lo butta per terra; un altro capellone lo raccoglie, e lo butta di nuovo per terra. In questo scambio di oggetti apparentemente privo di connessioni narrative è in realtà riassunto probabilmente l’aspetto più prettamente politico del film: l’utilitarismo, nel senso comunque artistico del termine, non è più legato alla bellezza del significante ma alla purezza del significato, il manico di chitarra è simbolo di rabbia e violenza nel concerto ma fuori da esso è un oggetto da buttare, insulso. Thomas lo rigetta perché non lo aggrada in nessuno dei due sensi, e anche gli altri lo abbandonano. In ciò si può notare anche la presa di posizione estetica che ovviamente culmina col finale, tanto citato pur esso, ad esempio in Mister Lonely (2007) di Korine, finale in cui al culmine dell’assenza di conclusioni narrative, dopo una festa intossicata a cui Thomas non partecipa, ci si ritrova in una partita a tennis senza palla, senza racchetta, mimata da questi giovani, da questo pseudo-movimento senza tempo che priva il tutto di una forma. Senza forma, c’è il gesto. E grazie al gesto, spunta il significato. Il futuro del cinema (forse, della fotografia, forse, dell’arte) è nell’intensità visuale, nella poesia, nella decostruzione di ciò che era già scritto; nell’assenza di speranze. Thomas sta al gioco, prende la “palla” e si cominciano a sentirne i suoni. Il suo lavoro è stato compiuto, Antonioni è pronto a proiettarsi nel cinema futuro, nel colore, nella decostruzione che giunge dopo la modernità. Fino a svanire nel verde. Forse, sì, sta nella confusione di questo mondo la chiave. Thomas si trova finalmente faccia a faccia con la superficialità del proprio stile di vita, colmo di stolte modelle e ricerche artistiche che lo privano della sua umanità in un’epoca di paura per la guerra nucleare. Per evadere bisogna mimare, fingere, recitare, darsi alla pazza gioia nei propri anarchismi personali, per dimenticarsi del mondo, anche senza comunicare verbalmente, finché c’è un contatto – quello che ne L’eclisse mancava, tra le verbosità dei due protagonisti. Anche l’omicidio forse era finto. Anche Thomas forse è finto; noi, anzi, sappiamo di certo che lo è. The End.

Sconfiggendo in maniera sempre più definitiva le proprie radici neorealiste estremizzando un discorso sull’occhio, un discorso che non solo supera la realtà ma la artificializza dimostrandone con vitale criticismo l’incompiutezza, Antonioni con Blowup compie un atto di separazione dai dogmi del cinema italico come forse nessun altro, neanche l’internazionale Bertolucci, è riuscito a fare. Con l’occhio che prima sovrasta il corpo femminile e poi rimane sovrastato dalla manipolazione del pubblico, giunge una consapevolezza importante, quella della sconfitta dei preconcetti della narrazione, per muoversi più in linea, invece, con le regole dell’astrazione. Con la possibilità dello spettatore, che si può addentrare nelle immagini per percepirne la densità drammatica senza vederla. Per mascherarsi, insomma, come negli altri demoni filmici di quell’aspro e lontano 1966, la maschera di Persona di Bergman (che di Antonioni apprezzava solo questo film – e l’interpretazione di Jeanne Moreau nel film del 1961 La notte), l’occhio asinino di Au hasard Balthazar di Bresson, la libertà di Le margheritine di Věra Chytilová, l’arte immortale attraverso il passaggio al colore di Andrej Rublëv di Tarkovskij. Blowup non descrive un ambiente culturale perché lo guarda con distacco, a differenza del seguente e sicuramente meno riuscito e meno concentrato Zabriskie Point (al cui confronto un film poco successivo concentrato sulle stesse tematiche come Hair (1979) può sembrare tutt’altro che datato), ma entrambi, con Professione: Reporter, delineano una disgiunzione, un distacco dall’Italia importantissimo, una specie di divagazione sulle possibilità etiche ed estetiche del cinema attraverso le proprie de-concretizzazioni, componendo un collage rabbioso e libero che mette in discussione i limiti dello sguardo cinematografico, la libertà nei paesi anglofoni (e, in Professione: Reporter, nel mondo), il senso dell’identità in un mondo spaventato (spaventato dalla “pace immobile” dell’epilogo contemplativo di L’eclisse (1963), riecheggiato in Blowup dalle manifestazioni pacifiste e dallo sguardo fotografico nei dettagli), il corpo, il sangue, l’irrazionale. In un grande, enorme discorso sullo sguardo, uno dei più importanti di tutto il cinema di finzione, insieme a Un chien Andalou (1929) di Buñuel, l’occhio assassino sia di Peeping Tom sia di Orfani, uccelli e pazzi (1969) di Jakubisko, Céline e Julie vanno in barca (1974) di Rivette, buona parte dei primi film di Godard e Truffaut, e, ovviamente, Eyes Wide Shut (1999) di Kubrick – e comunque di certo svariati altri. Ma tutto esplode, o forse meglio implode, con un’enigmatica dissolvenza.

Nicola Settis

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