BLOW OUT (1981), di Brian De Palma
Blow Out parte da un’idea che è a dire il vero un insieme di idee. La prima, e più evidente, è quella di coniugare, in maniera versatilmente diversa, il soggetto di uno dei capolavori sommi di Antonioni, Blowup (1966), aumentando le poste e passando dalla fotografia al cinema, ma anche invertendo il gioco passando, nell’audiovisivo, dall’immagine al sonoro, con un protagonista fonico che registra inavvertitamente la dimostrazione che la morte di un importante senatore è il risultato di un omicidio e non di un incidente. La seconda, che in realtà è la base di buona parte del cinema di De Palma, è quella di utilizzare gli schemi stilistici di Alfred Hitchcock estremizzandoli per violenza e soprattutto velocità, con lo scopo implicito di destrutturare un minimo i preconcetti sociali dell’eroe e dell’antieroe americani. Una terza idea si può riscontrare nel finale, o meglio nelle tre inquadrature che seguono all’adrenalinico inseguimento con cui si conclude l’intreccio, dando a quello che sarebbe potuto sembrare solo un esercizio di stile, per quanto complesso e stratificato, un’ulteriore dimensione empatica atta a descrivere più che mai lucidamente cosa è il dolore nel cinema. Blow Out fu inizialmente un fallimento al botteghino, dal quale il regista si risollevò due anni dopo con un film più economicamente ambizioso (e probabilmente cinematograficamente meno interessante), il remake dello Scarface di Howard Hawks, ad oggi probabilmente l’opera più celebre di De Palma anche grazie alle musiche di Giorgio Moroder, alla sceneggiatura di Oliver Stone e soprattutto alla magnifica interpretazione di Al Pacino. Col tempo, tuttavia, ha giustamente ritrovato un successo di critica grazie a una rivalutazione di massa mossasi inizialmente in particolare da parte della Criterion e di Quentin Tarantino, che ha sempre inserito Blow Out tra i suoi film preferiti di ogni tempo. La scalata verso la celebrità di De Palma, iniziata probabilmente tra il 1974 e il 1976, ovvero tra Il fantasma del palcoscenico e il primo adattamento cinematografico di King in Carrie, con Blow Out si è trasferita nell’ambito di una scalata verso il teorico, verso il metacinema e la citazione colta.
De Palma del resto è sempre stato uno strabordante forgiatore di inquadrature, e in Blow Out fa spesso di tutto per mettersi in scena nella maniera più anticonvenzionale. Ricordando che l’ossessione del regista per Blowup era già stata dichiarata in Greetings e che una delle tecniche maggiormente usate da De Palma, ovvero la profondità di campo usata per dividere nettamente in due l’inquadratura, quasi a blocchi rothkiani concreti, era già alla base di una delle immagini più iconiche del film di Antonioni, non si può innanzitutto non pensare a cosa accomuna le due opere. Il protagonista strafottente interpretato da David Hemmings era un inetto rappresentativo dell’alienazione dell’uomo moderno, mentre John Travolta può risultare inizialmente superficiale ma ha in mente sostanzialmente la giustizia. In secondo luogo, l’ossessione di Blowup è l’immagine, o, meglio, la rappresentazione artistica della materia e del reale, quella di Blow Out è la ricerca della verità: si va dall’astratto del cinema europeo della riflessione esistenziale al concreto del cinema americano della convulsione contorta sui simboli e sugli schermi. L’antagonista netto, quel John Lithgow che da 10 anni a quella parte sarebbe diventato, sempre per De Palma, il temibile padre/serial killer di Doppia personalità, è un vero e proprio terrorista glaciale, non tanto un archetipo di male umano quanto una specie di demone con un’ossessione materialistica per la carne, pronto a recitare ruoli fino ad annullare la propria identità e dunque la propria umanità. Blow Out si apre con un piano sequenza in soggettiva che spia delle ragazze del college che ballano, si masturbano e fanno la doccia, ma dopo pochi minuti, dopo che si vede apparire nello schermo il volto dell’assassino con lo stesso gioco prospettico de La donna nel lago (1947) di Robert Montgomery, la vittima lancia un urlo irrealistico. Con uno stacco netto si capisce che quello non è il film che stiamo guardando o che dovremmo guardare, è solo un film nel film al quale Travolta sta lavorando, messo in scena come una sorta di parodia/tributo del prologo di Halloween di Carpenter o delle scene di omicidio dei primi film di Dario Argento. I titoli di testa però aprono a sequenze di tensione e di voyeurismo, di telegiornali che anticipano dove verterà il finale del film e di prostituzione. De Palma riesce sempre nel tentativo di sorprendere lo spettatore, non tanto per la narrazione, nonostante anch’essa abbia dei colpi di genio (basti pensare all’intuizione, non troppo esplicitata, che vede il personaggio di Lithgow come un uomo che, per ragioni ignote, ne sa di audio più o meno quanto Travolta), quanto per le tecniche di ripresa adoperate. Raramente vi sono scelte troppo antidogmatiche per il tipo di cinema a cui De Palma abitua il pubblico, tra split-screen e lunghe carrellate verso l’alto o verso il basso, ma, quando ci sono, spaccano lo schermo: e se dobbiamo scegliere dei momenti specifici, basti pensare al movimento rotatorio all’interno dello studio di Travolta per sottolineare la sua perdizione dopo essere stato rovinato da Lithgow e all’inquadratura iniziale dell’omicidio efferato che quest’ultimo compie verso la fine del film nel bagno della stazione, una scena tesa e hitchcockiana che poco aggiunge all’intreccio, ma che è messa in scena con una composizione geometrica perfettamente calcolata, tra specchi riflettenti e fili per strangolare che passano nello spazio millimetrico tra le labbra di una donna e il suo spazzolino.
La scomparsa di Hemmings alla fine di Blowup ha fatto scuola, forse anche involontariamente, portando sempre di più verso un’idealizzazione dell’antieroe che diventa immateriale, del concreto che deve sparire e allontanarsi dalla macchina da presa, un concetto che si fa sempre più forte col passare degli anni anche grazie al filosofare imperterrito e ostentato del neo-cinema d’autore, specie quello in digitale, a partire da A spell to ward off the darkness. Ma cosa accade, invece, nel finale di Blow Out? Quando tutto appare perduto per sempre, con la ‘femme’ della situazione, interpretata dall’ex-moglie di De Palma, Nancy Allen, nelle grinfie del killer e Travolta in ambulanza dopo un incidente d’auto, si avvia un meccanismo di salvataggio dell’intreccio da parte dell’irrazionalità cinematografica. I tempi si fermano e si dilatano, senza aver più la frenesia melodrammatica di un western fordiano, spostandosi sui binari di un cine-delirio in cui non ci sono sovrimpressioni ma immagini che si legano l’una all’altra con enfasi. La bandiera americana regna su tutto, interrompendo il montaggio alternato in cui la giustizia è andata perdendosi, ma di fronte a essa accade un efferato omicidio. La manifestazione patriottica continua imperterrita, mentre Travolta continua a correre, lasciandosi alle spalle il mondo, smettendo di essere un simbolo, anche un po’ ironico e sfaccettato in quanto evoluzione dell’inettitudine di Hemmings, e diventando ufficialmente un individuo capace di tenere ad altri esseri umani, a volersi prendere cura dell’altro. In questa infernale precipitazione verso il confronto, sia il male che il bene si piegano di fronte a lui, morenti. L’assassino viene assassinato, la ‘femme’ è già morta. Citando sia Fino all’ultimo respiro sia, più esplicitamente, Cenere e diamanti, De Palma pone il proprio protagonista al centro di una rotazione in cui il fallimento dell’uomo sembra essere soffocato dall’apparente successo di un paese. La testa calda di Travolta si trova per l’ennesima volta a doversi confrontare non tanto con l’altro quanto con la consapevolezza di ritrovarsi di fronte a un ennesimo, cadaverico rimorso. Qual è la maniera migliore per riscattarsi? Dopo una dissolvenza sul nero, ci si ritrova di fronte a uno spazio bianco e innevato, e poi allo studio del protagonista. Travolta continua ad ascoltare ossessivamente le registrazioni della sera stessa del climax, come innamorato della morte (tematica portante del successivo The Black Dahlia), ma l’ossessione non è per la donna o per la morte stessa, quanto per la necessità di trasformare quel dolore in un risultato artistico. Perciò, l’ultima inquadratura non può che essere la più disperata tra le apologie del cinema: l’urlo lanciato da Sally mentre cercava di attirare l’attenzione di Travolta per evitare di essere uccisa diventa l’urlo della donna nella doccia del film a cui il protagonista sta lavorando. Il dolore diventa cinema, o forse meglio ne diventa una colonna portante. E ogni tecnicismo che può appartenere alla lavorazione di un’opera cinematografica può contenere dunque anima, personalità, eppure scompare nel marasma magmatico del gioco del cinema stesso.
De Palma non supera la complessità formale di Antonioni, che ha studiato ogni inquadratura per comunicare qualcosa di diverso e sempre complesso, ma ha la maturità per poter mettere in discussione i concetti e le meraviglie di quel tipo di cinema, creando altra meraviglia e altro pessimismo. Travolta non scompare, ma la sua umanità sì, trasformandosi in cinema. Blow Out sarà un thriller anni ’80 di culto, ma se questa non è poesia…
Nicola Settis