Quello del Nagorno-Karabakh è un toponimo sconosciuto ai più, tornato di recente agli “orrori della cronaca” – in un 2020 piuttosto monotematico dal punto di vista del flusso di notizie – per la riacutizzazione di un conflitto tecnicamente mai concluso tra Armenia e Azerbaijan (nonostante un cessate il fuoco dichiarato nel 1994). Una guerra che risale al 1991, quando la regione approfittò della disgregazione dell’Unione Sovietica per proclamare la secessione dall’Azerbaijan, entro i cui confini è collocata. Il Nagorno-Karabakh è infatti un’enclave – come tale interamente circondata da territorio straniero, e segnatamente, per l’appunto, azero – che già negli anni Venti del Novecento, quando era parte della neo-costituita Unione Sovietica, era stata promessa all’Armenia dai bolscevichi. I libri di storia raccontano che fu Stalin a cambiare idea, per compiacere la Turchia tradizionalmente alleata degli azeri, ai quali venne di fatto ceduto l’Oblast Autonomo del Nagorno-Karabakh, una cessione concretizzatasi dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’indipendenza dell’Azerbaijan. E fu infatti a quel punto che esplosero le tensioni fino a quel momento tenute a freno dall’influenza russa (che non manca di manifestarsi ancora oggi, con l’appoggio all’Armenia che bilancia quello turco all’Azerbaijan). Il Nagorno-Karabakh, a sua volta protetto dall’Armenia, aveva addirittura proclamato la propria indipendenza, costituendosi come repubblica autonoma (la Repubblica di Artsakh), mai riconosciuta dalla comunità internazionale e pertanto considerata di fatto come regione autonoma sotto l’influenza armena. Come al solito ci sono ragioni etnico-religiose a fondamento di uno scontro ormai trentennale: il Nagorno-Karabakh è abitato principalmente da armeni, in larghissima maggioranza di fede cristiana, mentre gli azeri sono invece musulmani sciiti (come i vicini iraniani).
Blocus, il documentario di Hakob Melkonyan, armeno classe 1984 formatosi in patria, nella scuola di cinema e teatro della capitale Yerevan, ma anche in Germania, a Monaco di Baviera, e ora emigrato in Francia, non racconta nulla di ciò, è bene dirlo fin dal principio. Non c’è spazio, nel film presentato online in quella che si spera rimarrà l’unica edizione pandemica del Trieste Film Festival, la 2021, per resoconti geopolitici o introduzioni didascaliche: si viene subito ribaltati in medias res all’interno di un conflitto in corso e che periodicamente si riacutizza – dopo la guerra del 91’-94’, che causò circa 30 mila morti tra le due fazioni e milioni di profughi, ci sono stati scontri soprattutto nell’ultimo decennio, fino alla nuova recrudescenza sul finire del 2020. L’unica cosa che ci viene detta è che gli azeri sono nemici, facendoci intuire come si sia dalla parte armena della barricata, e precisamente nella cittadina di Chinari, località vicina al confine con l’Azerbaijan e quindi, proprio per questo, particolarmente interessata dalle scaramucce armate che si ripetono con disarmante periodicità. E alle minacce militari dirette di chi abita nelle regioni di confine, gli abitanti dell’Armenia e del Nagorno-Karabakh devono aggiungere anche le problematiche derivanti dal blocco economico-militare di matrice turco-azera, che fornisce il titolo al documentario.
Fin dall’inizio il regista concentra le sue attenzioni sulla famiglia Petrossian, che vive nella casa più vicina al confine con l’Azerbaijan e che è principalmente dedita all’agricoltura. E proprio durante un normale giorno di lavoro nei campi scoppiano le ennesime dispute armate di confine. Gli spari provengono dalle montagne circostanti (siamo nel Caucaso minore) e costringono padre, madre e tre figli a rincasare anzitempo. La macchina da presa, che aveva iniziato con una serie di quadri fissi, denota con la sua improvvisa mobilità – e con il rovesciamento di novanta gradi conseguente alla messa a riparo dell’operatore – l’angoscia e la pericolosità del momento. Tutto il film seguirà le vicende quotidiane di quella famiglia e di quella comunità, per fornire uno spaccato di una vita perennemente vissuta sul fronte, per restituire le angosce della popolazione civile a fronte di una guerra di cui, per l’appunto, non si vogliono discutere cause e motivazioni, limitandosi a rappresentare l’effetto che ha sulla gente e, in particolare, sui bambini. Nella scuola di Chinari, in quanto località di confine, si insegna ai bambini a sparare con i fucili semi-automatici e a lanciare granate, un cinico pragmatismo che segna la precoce fine dell’innocenza di quei ragazzini. E così il confine che separa il civile dal combattente finisce per annullarsi, come dimostrano anche le scene in cui il padre, al calare delle tenebre, imbraccia il fucile e indossa la mimetica per vigilare sul sonno della sua famiglia.
Una scena, quest’ultima, che consente di spostare l’attenzione sugli aspetti formali di questo documentario tanto importante per i contenuti quanto naif per lo stile. Un’ingenuità che traspare proprio dalla sequenza in questione, in cui si mostra il capofamiglia che piantona la porta della sua abitazione, fucile alla mano, illuminato da una potente lampada fotografica. Una spettacolarizzazione esteticamente apprezzabile, ma che finisce per togliere verosimiglianza al racconto, giocandosi una parte di credibilità, peraltro in una scena assolutamente simbolica come quella che illustra la difesa armata del domicilio: ovviamente nessun combattente si metterebbe mai a sorvegliare un possibile obiettivo illuminato da un proiettore, in piena notte, diventando un bersaglio fin troppo semplice per eventuali nemici. E la cosa ci dimostra quanto distanti siano l’arte della guerra (per dirla con Sun Tzu) e quella tout-court cinematografica. Ci dimostra quanto agli antipodi si pongano la tecnica militare e la perizia del cinematographer (ad essere accreditati alla fotografia sono lo stesso regista e gli altri due operatori, Arsen Khechoyan e Avetik Grigoryan). Perché di perizia innegabilmente si tratta, visto il ventaglio di scelte apprezzabili, a cominciare da quella dell’utilizzo del teleobiettivo e di diaframmi particolarmente aperti, con continui spostamenti del fuoco tra i vari soggetti inquadrati, annullando la profondità di campo e donando un senso di isolamento dell’individuo rispetto al suo contesto e alle persone che lo circondano. E la scelta del teleobiettivo porta anche a privilegiare i primi e i primissimi piani, nonché le riprese in dettaglio, mantenendo la necessaria distanza ed evitando di intaccare l’intimità di certi momenti. Perché l’uomo, per quanto inserito in una comunità, si trova spesso a essere solo – se non letteralmente, spiritualmente – di fronte ad avvenimenti irrazionali come le guerre. E ancora una volta, l’assenza di una rimarcata contestualizzazione geopolitica porta a rendere quella sensazione di isolamento pressoché universale, sebbene chiaramente calata nel contesto del conflitto armeno. È forse il risultato più interessante di un’opera per altri versi acerba, ma comunque, a suo modo, necessaria.
Vincenzo Chieppa