BLIND SUN (2015), di Joyce A. Nashawati
Blind Sun è il caldo torrido di un’estate soffocante. Un caldo che toglie la ragione, un caldo che acceca, un caldo che schiaccia, opprime, esaurisce fino alla spirale di follia. Un caldo insostenibile, stordente, per il quale la terra è riarsa, i paesaggi sono giallastri, le pelli sono bruciate, le labbra devastate dall’arsura, e in una Grecia sempre più razzista e corrotta scoppia una crisi idrica per cui l’acqua diventa il bene più prezioso, ciò per cui combattere, ciò per cui, forse, impazzire. È un film affascinante, Blind Sun, una spirale di atmosfere thriller fra mistero e follia in cui rimanere invischiati durante i tortuosi iter burocratici per il rinnovo di un permesso di soggiorno sequestrato senza motivo al protagonista di origine mediorientale da un poliziotto violento, arrogante e xenofobo. È un film di solitudine, di egoismo sprezzante, di rumori e di presenze, ma soprattutto è un film capace di ribaltare le atmosfere cupe e la centralità della notte tipiche del genere facendo proprio del sole e della sua luce accecante il principale elemento di ambiguità, quello che atterrisce, quello che incombe sul protagonista. Se non proprio la causa dei mali, la canicola è ciò che ne rallenta la soluzione, ciò che rintontisce, ciò che fa impazzire: la tensione del film è in piena luce, durante il giorno, e paradossalmente è proprio la notte a essere il momento di normalità, riposo, tranquillità e amore – non più ora delle streghe e degli spettri ma anzi unico momento in cui il sole lascia la presa, e con lui anche i suoi fantasmi sembrano sparire, o per lo meno lasciare qualche ora di tregua. Blind Sun, oggetto cinematografico ambiguo e magmatico di co-produzione franco-greca che giunge al Trieste Science+Fiction Festival 2016 in concorso Méliès, è fascino misterico, è suggestione, è l’inafferrabile più atroce che emerge durante le oppressioni: quella del caldo, quella economica, la crisi idrica, la violenza razzista, la durezza nei rapporti umani, l’ossessione, la paranoia. È allucinazione, è thriller, è pericolo, è (auto)distruzione.
Blind Sun è la fine prima della fine, è una spirale apparentemente infinita, sempre più stretta, come un nodo alla gola, come un fuoco, come un’asfissia di gocce di sudore e aria sempre più viziata. È la stessa giovane regista Joyce A. Nashawati, nativa di Beirut ma, al pari del protagonista messo in scena, praticamente da sempre in Europa, cresciuta fra Grecia e Francia, a parlare di atmosfera pre-apocalittica (e non post) per definire il suo film d’esordio, girato in un 35mm talmente saturo nei suoi gialli, rossi e arancioni – complice la fotografia di Giorgios Arvanitis, storico DOP di Theo Angelopoulos – da trasmettere anche al pubblico quello stesso senso di caldo oppressivo e allucinato messo in scena. Blind Sun è un thriller atipico, un film d’atmosfera fatto di dettagli, sudore, burocrazia, razzismo, fantasmi, paranoia, ostilità umana, acqua lussuosa, piscine illegali, bar, passioni sulla spiaggia, crisi economica, fuoco, violenza, intimità violata, sadismo e follia fino alla totale dissoluzione nichilista. È un film che procede per accumulo, efficace nel creare il mood per trasmettere la spirale d’inquietudine che vuole raccontare, ma che in questa continua altalena di tematiche e suggestioni sembra girare troppo pericolosamente intorno al rischio della sterilità, come incapace di scegliere una strada e di andare in affondo, ma preferendo lasciare che questa atmosfera oppressiva, paranoica, nebulosa nella sua troppa chiarezza anche dei miraggi avvolga anche il senso più intimo di un film che sceglie deliberatamente di non procedere oltre, senza che ci sia un qualche significato profondo pronto a emergere. Anzi, paradossalmente la cura autoriale così estrema nelle immagini e la tensione alle inquietudini lynchane senza essere David Lynch – in testa la sequenza della cantante al bar, che non può che riportare alla mente la prima apparizione di Isabella Rossellini in Velluto Blu, ma in generale tutta l’operazione liminale fra sogno e vari livelli di realtà guarda continuamente, e purtroppo da lontano, al geniale regista di Missoula – sembra quasi un rifugio un po’ furbetto, il bel tappeto sotto al quale nascondere il mucchietto di polvere dell’aridità concettuale, della mancanza di originalità, dei cliché. Ed è ciò che infastidisce del film, come in una copia sbiadita, come in un falso d’autore, è ciò che rende difficile sciogliere le riserve e abbandonarsi pienamente al flusso emozionale delle derive psicologiche del comunque buon thriller di Joyce A. Nashawati.
Non sappiamo quale sia la natura delle apparizioni che, fra ombre, oggetti spostati e gatti annegati affligge Ashraf Idriss, guardiano della villa in Grecia di un’insopportabilmente borghese famiglia francese, e nemmeno lui lo sa, ma vive il suo terrore, forse impotente ma di sicuro combattivo. Potrebbero essere semplicemente sue paranoie, potrebbero essere i suoi fantasmi, potrebbe essere la sua immaginazione, ma potrebbe anche essere una minaccia reale, corporale, un nemico semi-invisibile che ogni giorno si addentra sempre più nella casa, nell’intimità e nella mente del protagonista. Come quel poliziotto in apertura che, per mero bullismo razzista, sequestra ad Ashraf il permesso di soggiorno, come il suo collega che, quando Ashraf si presenterà per ritrovare il suo documento o quantomeno rinnovarlo lo scaccerà dalla stazione di polizia con altre minacce, come il pastore che, nel vagare del protagonista nei paesaggi secchi e ormai quasi desertici dell’estate più calda, anziché offrirgli un vitale bicchiere d’acqua gliela spruzzerà sulla faccia per poi prodigarsi in un’agghiacciante risata sarcastica di fronte alla sua disperazione. La famiglia proprietaria della villa continua a chiedere al suo guardiano il permesso di soggiorno per regolarizzare la sua posizione, e il riottenimento dei documenti diventerà per Ashraf ossessione e disperazione in un mondo sempre più ostile, duro, cinico. Un mondo di ombre, appunto, un mondo in cui il confine fra realtà e immaginazione è sempre più labile, indefinito, atroce. Un mondo senza apparenti vie di fuga, che solo il fuoco può annientare, ripulire, salvare: l’apocalisse. Blind Sun, al netto dei suoi limiti e delle sue scelte un po’ troppo di ‘comodo’ nell’adagiarsi su immaginari altrui, è un film d’esordio senza dubbio interessante, magnetico, che potrebbe essere per Joyce A. Nashawati solo la prima tappa di una carriera importante. Certo, per poter mantenere appieno le promesse e le premesse date dal talento visivo e narrativo della regista, la Nashawati dovrà nel prossimo film sapersi affrancare dai riferimenti troppo espliciti a un cinema quasi impossibile da replicare e dalla voglia di mescolare troppe suggestioni, trovando una via personale, originale, e magari meno nebulosa nei messaggi, capace di concentrare un nucleo di piena sostanza sotto il fascino dell’ambiguità e del mistero. La strada intrapresa è probabilmente quella giusta, ma servirà lavorarci ancora qualche tempo per giungere a una piena maturità cinematografica che sappia mettere davvero a frutto la sua forza visionaria. Da parte nostra, siamo disponibilissimi ad aspettarla.
Marco Romagna