L’immortalità può essere una condanna. Può voler dire dolore, rimpianti, amori seppelliti uno dopo l’altro, un costante disfacimento del corpo, nel quale l’utopia della morte si erge a sogno di una liberazione impossibile. Basterebbe l’antefatto, rilucente nel suo nervoso bianco e nero, nel quale Manji, samurai colpevole di aver tradito lo shogunato e ancor peggio di aver rifiutato il suicidio rituale e con questo la salvezza dell’onore, è ora un ronin, un rinnegato conscio delle sue colpe e delle sue responsabilità. Al fiume, parla con una misteriosa donna incappucciata, ammette di meritare la morte, ma sa di non poter lasciare sola la giovane e ingenua sorella che però, poco dopo, verrà uccisa davanti ai suoi occhi: la vita di Manji ha perso ogni tipo di senso, è giunto il momento della vendetta, è giunto il momento di sfoderare la spada e partire contro tutti mosso dalla più pura furia cieca. Gli avversari sul campo sono centinaia, e in un calderone di dettagli e di stacchi di montaggio meravigliosamente serrati diventano ben presto centinaia di cadaveri, mentre Manji viene ferito più volte al volto, perde una mano, perde un occhio, fino a trapassare per ultimo il loro capo quasi uccidendosi a vicenda. Ma è ancora la misteriosa donna a giungere, e anziché finire, come da richiesta, il soldato moribondo, gli verserà in una ferita dei vermicelli di sangue magici, pronti a vivere in lui e a ricomporre i suoi pezzi, a suturare le sue ferite, a garantirgli l’immortalità. Il regalo, o forse la punizione.
È il momento che esploda la saturazione del colore, è il momento che il sangue nero torni rosso, è il momento che i corpi riversi a terra riprendano la loro consistenza, la loro fisicità. Quello di Blade of the Immortal, che risulta essere, escludendo le opere televisive, l’ottantanovesimo lungometraggio di un come sempre febbrile Takashi Miike che si sa già al lavoro su almeno altri due progetti, è un incipit folgorante, che (ri)parte, seppur semplificandolo, dal jidai-geki di 13 Assassini (2010) per lambire le coste del fantastico introducendo già tutti i temi più cari al regista, dalle riflessioni sull’impossibilità di morire alla costante modifica e rigenerazione del corpo, dalla vendetta all’onore, passando per la ricerca di riscatto.
Anzi, paradossalmente l’antefatto in bianco e nero di Blade of the Immortal è un incipit sin troppo folgorante, apertura di un film ondivago e altalenante che non saprà, né in realtà vuole, aggiungere più di tanto a quanto splendidamente mostrato nei primissimi minuti. Come a volte capita nella sterminata filmografia di Miike, probabilmente Blade of the Immortal è un film troppo lungo nel suo stiracchiarsi per quasi due ore e mezza, è un film meno ispirato rispetto ai vari Dead or alive, Ichi the Killer, Il canone del male o Visitor Q (ma l’elenco di grandissimi film potrebbe andare avanti a lungo), è un film meno geniale e meno ironico di altre volte, è un film “già fatto”, anche da Miike, più e più volte: è un divertissement, che trae dal manga di riferimento anche parte dei limiti narrativi e della reiterazione degli schemi, che perde qualche colpo fra letali assassini in crisi di coscienza, stupri da parte di samurai ermafroditi e ragazzine “da non toccare”, ma che mai rinuncia a essere un film profondamente miikiano, forte delle sue ossessioni, forte della sua tecnica sopraffina nel narrare per immagini, forte della sua sfacciataggine contro qualsivoglia imposizione produttiva. Nessuno al mondo sa girare le sequenze di combattimento come Takashi Miike, e in questo senso Blade of the Immortal è un puro spettacolo per gli occhi, lontano da qualsiasi possibile standard. Nella storia dell’ex samurai immortale e della giovane ragazza così simile alla sorella che, a cinquant’anni dalla sua immortalità, lo ingaggia come guardia del corpo per vendicarsi di chi le ha sterminato la famiglia, Miike racchiude un frullato di generi che, ben oltre l’intrattenimento, si pone come un film di dettagli e di corpi: agonizzanti, mutilati, uccisi. Sono corpi fatti di carne scalfita e dolorante, dove non è tanto il sangue a stuzzicare l’immaginario del regista, quanto la ferita, la perdita, la rigenerazione, la cicatrice come una medaglia, gli effetti degli atti d’eroismo. Ci sono i vermicelli magici che ogni volta ricostruiscono Manji, c’è il siero che smette di farli funzionare come unico modo per morire per il suo avversario/compagno di (s)ventura, c’è la spada, c’è l’eleganza dei movimenti, c’è il combattimento – mai campo lungo e sempre pioggia di inquadrature – come unico momento in cui il rinnegato può tornare uomo, in cui il ronin può tornare samurai, in cui il bene e il male acquisiscono ben precise fisionomie. Perché, nella più pura tradizione del Sol Levante, è solo la lama ciò che conta, quella per combattere, quella per il sappoku, quella dell’immortale, Blade of the Immortal.
Quella lama che i popolani, al tempo dello shogunato di Edo, non potevano portare perché il potere la proibiva, e in effetti Blade of the Immortal nient’altro è che una lotta contro il potere. Contro quel potere corrotto e violento che spazza via ogni possibile oppositore politico, contro quel potere fatto di tradimenti, di doppi giochi, di temporanee e impossibili alleanze. Contro quel potere ambiguo e multiforme, un potere sociale, politico, sessuale, e forse cinematografico. E anche contro il potere della magia, dell’ignoto che non permette di morire ma condanna a soffrire in eterno. Un potere nel quale affondare la lama per poter essere finalmente liberi, forse di nuovo mortali, di sicuro di nuovo eroi. Fratelli?
Marco Romagna