BLACKBERRY (2023), di Matt Johnson
«La persona che riuscirà a mettere un computer all’interno di un telefono cambierà il mondo», dice apertamente a metà anni Novanta il Mike Lazaridis interpretato da Jay Baruchel. Una frase, attribuita a un vecchio professore dei tempi di scuola, che segna il ben preciso punto di genesi della sua visione, di quell’idea rivoluzionaria che avrebbe di lì a poco portato all’invenzione del BlackBerry primo smartphone di sempre e per oltre un decennio indiscusso leader mondiale del mercato con la sua qwerty fisica e con i suoi protocolli specifici di messaggistica, gestione email e navigazione. Fino a qualche malfunzionamento per sovraccarico delle reti, fino a qualche scricchiolio nell’armonia interna del sistema a doppio CEO, fino a qualche errore strategico e a qualche aperta irregolarità fra supermanager e squali della finanza pur di rubare i migliori ingegneri alle altre compagnie, ma soprattutto fino al lancio dell’iPhone da parte della Apple di Steve Jobs e al conseguente rapido declino del concorrente canadese diventato improvvisamente obsoleto e incapace di rinnovarsi e rimanere al passo, prima passato più volte di mano fra abbassamenti qualitativi e modelli di scarso successo, e poi definitivamente uscito di scena dello scorso anno con lo spegnimento delle reti dedicate. Una parabola di repentina ascesa e rovinosa caduta in cui l’attore, sceneggiatore e regista Matt Johnson, giunto all’opera terza dopo The Dirties e Operazione Avalanche, si diverte a giocare con il biopic, il dramma e la commedia per innestare una satira, caotica e spassosa quanto ficcante, tanto sulla transitorietà delle tecnologie destinate a essere superate e abbandonate quanto sulla faccia più brutale e spietata dell’economia, tanto sull’immaturità e sull’inadeguatezza alla vita adulta che spesso si nasconde dietro alla genialità ingegneristica e quanto sulla mancanza di umanità di chi invece è all’opposto rapido, decisionista e glaciale, una macchina da soldi nata per urlare ordini e vederli immediatamente eseguire mentre i profitti salgono esponenziali. Da una parte il nerd pasticcione Dough, l’amico di una vita di Lazaridis, per incarnare il quale lo stesso Matt Johnson si ritaglia un ruolo ai limiti del demenziale fra la fascia rossa d’ordinanza fra i capelli, le magliette molto più che casual e i ripetuti giochi e cineforum al posto di concentrarsi sul lavoro, e dall’altro il co-amministratore delegato Jim Balillie per cui si è rasato la sommità della testa Glenn Howerton, sorta di The Wolf of Wall Street della rivoluzione smartphone tanto efficace nella vendita del prodotto quanto brutale nello spronare gli ingegneri, tanto impegnato nei continui viaggi aerei quanto frustrato nel non essere mai riuscito a comprare una franchigia NHL da trasferire in Ontario. Un lupo fra gli agnelli capace di braccare e stringere alla gola, di ricattare e di tradire, di mentire e di ingannare, di predatare illegalmente le stock options pur di rendere ancora più sleale la concorrenza ai possibili competitors, ma senza il quale probabilmente il BlackBerry sarebbe rimasto il sogno di due giovani troppo dispersivi e disorganizzati per fare realmente emergere le proprie capacità.
Basterebbe forse la Honda Civic vecchia e scassata con cui Mike e Dough vanno in giro a cercare di convincere finanziatori della bontà della loro idea, o le pile di modem accatastati – con drammatico errore di valutazione economica – che occupano buona parte del loro ufficio nel momento in cui Balillie ne prende di fatto possesso, trasformandoli nel giro di breve tempo in multimiliardari. Oppure basterebbe la spesa (straordinariamente ironica) di Game Boy e Sapientino dei sue amici-ingegneri-bambini mai cresciuti quando, messi sotto pressione dal nuovo co-CEO, sono costretti in una sola notte a realizzare per davvero il prototipo del primo modello. Gli stessi bambini mai cresciuti che sono colti da sincera incredulità e quasi non si capacitano della cosa quando, dopo il successo e i clienti più illustri da Obama in giù, scoprono che il pubblico sembra realmente preferire i touch screen al clic della loro tastiera; gli stessi bambini mai cresciuti che nel momento del crash della rete vorrebbero risolvere il problema ma non riescono a fare a meno di perdere tempo, e che solo un pool di superdirigenti e mentalità imprenditoriali saprà trasformare nelle menti e nelle mani di una fabbrica realmente efficiente. Fino a quando durerà, per lo meno, con l’oggetto simbolo dell’orgoglio canadese letteralmente spazzato via dalla potenza americana. Perché è un film di transitorietà BlackBerry, liberamente tratto dal libro-inchiesta Losing the signal co-firmato da Jacquie McNish e Sean Silcoff e presentato nel concorso principale (anche se forse sarebbe stato meglio accolto nel fuori concorso dal respiro maggiormente pop di Berlinale Special) della 73ma Berlinale. Un film di opposti necessari uno per l’altro, che mette in aperta dialettica l’efficienza e il caos, la goffaggine e il talento, le esplosioni di Love will tear us apart dei Joy Division o Nosferatu Man degli Slint e una regia sporca e frenetica di pedinamenti a mano, grana esasperata e immagini apparentemente rubate dietro ai vetri e agli spiragli delle porte. Quasi come se la macchina da presa stesse guardando di nascosto e origliando, sostanziale soggettiva (pseudo)documentaristica di un pubblico che in qualche modo partecipa a quei momenti, letteralmente trascinato nella vicenda e nella critica sociale che ne emerge. Non sono un caso, in tal senso, gli inserti in Hi8 che puntellano il passaggio dal sogno del “computer nel telefono” alla realtà del primo smartphone e poi lo scorrere degli anni dal ’96 fino al 2008, come immersioni ancora più all’interno di quel sottoscala con una dozzina di dipendenti che si espanderà fino a diventare il principale colosso mondiale della telefonia o per lo meno il più rivoluzionario, quello che ha segnato il punto di non ritorno, lo switch irreversibile delle vite e delle abitudini di chiunque negli ultimi anni. Ma anche «il telefono che tutti avevano prima di comprare un iPhone», destinato a diventare un vecchio modello da tenere in un cassetto, un ricordo, tutt’al più un’occasione di nostalgia. Al contempo una vittoria e una sconfitta, di un’idea tanto rivoluzionaria che ha effettivamente cambiato il mondo, le modalità per fare praticamente ogni cosa e una società che non riesce più a distogliere lo sguardo dagli schermi, quanto rapidamente invecchiata, superata, accantonata negli ulteriori progressi tecnologici che, senza il BlackBerry e le sue fondamentali intuizioni wireless, forse non ci sarebbero mai stati, o per lo meno non in tempi così rapidi. Il resto è un film che cerca un suo spazio da qualche parte fra The Social Network e The Apprentice, fra La grande scommessa e Wall Street, ma volendo anche fra I Tenenbaum e Il grande capo, con un umorismo irresistibile e al contempo amaro, con un occhio sulle furbizie dei magnati e l’altro sulla sincerità degli amici, con una corsa folle al costante aggiornamento tecnologico e finanziario a costo di vendere la propria anima al diavolo. Con un sospiro sul sogno, una carezza all’inadeguatezza e uno schiaffo, ben tirato, al consumismo capitalista in copertina su Forbes. Forse nulla di particolarmente inedito e trascendentale, è vero, ma nemmeno poco per un film di puro intrattenimento che non ha alcuna pretesa di innestarsi e restare nella storia del cinema. Vuole semplicemente fare occupare due ore in cui, pur vedendo decine di cellulari, non guardare nemmeno una volta il proprio. E fa solo che bene disintossicarsi un po’.
Marco Romagna