Importa solo relativamente che qualche passaggio di Black Tea possa forse risultare a tratti non del tutto chiaro, o che il finale aperto possa lasciare qualche piccola perplessità nell’interpretazione. Anzi, a ben vedere la sospensione e il caos, il non capire dove esattamente ci si trovi nel mondo, nella società, nella Storia e nel limbo fra la concretezza della realtà e l’astrazione del sogno, è proprio uno dei punti cardine del film corale e multietnico, volutamente sfilacciato nelle tante sottotrame che creano un mosaico di storie e di connessioni con il filone narrativo principale, con cui il mauritano/maliano Abderrahmane Sissako, dieci anni dopo Timbuktu, ritorna a firmare la regia di un lungometraggio. Con un emozionante e stratificato melodramma che mette in scena la nascita di un sentimento puro e dolcissimo, il crescere inarrestabile di un’intimità, il progressivo aprirsi, sfiorarsi e appartenersi di due anime alla disperata ricerca di felicità e di quiete, la vicendevole spinta ad affrontare finalmente di petto i fantasmi irrisolti del passato. Passando per la diaspora d’Africa e per l’ipnotica e sensuale leggiadria dei precisi gesti rituali con cui preparare e mettere in infusione i più pregiati the della Cina, per un marito abbandonato sull’altare e per una figlia mai riconosciuta da cui scoprire di essere stati attesi per tutta la vita, per la convivenza fra culture e per l’eleganza spaventosamente potente di una messa in scena di dissolvenze e di vetrine che riflettono le luci rossastre nella notte, di sguardi ormai complici e di canti strazianti, di danze comunitarie africane e di ombre cinesi in silhouette dietro alle tende. Di colori caldi e di colori freddi, che proprio come i protagonisti prima si guardano da lontano e poi progressivamente si avvicinano. Un film che inizia in francese in Costa d’Avorio, si svolge principalmente in mandarino nella comunità sino-africana presente fin dagli anni Novanta a Guangzhou e non potrà che tornare nel passato e poi nel presente al portoghese di Capo Verde, fra saloni di bellezza e negozi di valigie, fra una rinomata casa del the e il suo retrobottega, fra le strade e i ristoranti delle città in cui Sissako innesta la sua ennesima storia errante di radici strappate e di emigrazioni in giro per il mondo, di confronti e di conflitti culturali, di adattamenti a una nuova civiltà e di memorie di un passato, inevitabilmente coloniale, di cui è impossibile rimarginare fino in fondo le cicatrici. Questa volta senza più bisogno dei processi contro le istituzioni già di Bramako né dell’arrivo di un qualche jihadista a imporre la Shari’a come nel già citato Timbuktu, ma muovendosi in direzione di una dimensione intima e poetica che non si vedeva dai tempi di Aspettando la felicità, che non vuole cercare chissà quale verità ma semplicemente una presa di coscienza e di dignità, un respiro che si fa sospiro, un’emozione che si fa sentimento. Una serenità nuova e (im)possibile, in cui sentirsi amati e (ri)trovare finalmente la propria identità in una vita apolide e senza più fondamenta né da una parte né dall’altra, o forse ormai troppo legata a entrambe per potere realmente compiere una scelta. Del resto appare perfettamente integrata la protagonista Aya nella sua nuova vita in Cina. Una donna già capace in patria di dire no al momento del matrimonio, non tanto perché gelosa del tradimento subito la sera prima da parte di quel marito che non la avrebbe mai davvero amata, e forse nemmeno per chissà quale volontà di emancipazione e di ribellione, ma semplicemente come l’accettazione di un dato di fatto, di una realtà che non si poteva più nascondere, proprio come ora, nel suo ricominciare a Guangzhou, a un certo punto non potrà più mentire sul suo stato civile millantando quel marito ideale disposto a farla viaggiare per imparare i segreti del the mentre aspetta placido il suo ritorno a casa, ma dovrà per forza confessare la verità.
Un dualismo fra la menzogna “sociale” delle convenzioni e la sincerità “privata” del sentimento su cui Abderrahmane Sissako intelligentemente dipana tutte le dinamiche umane di Black Tea, con quelle “lezioni di the” con le quali Cai, il proprietario della boutique in cui Aya lavora, le insegnerà nel segreto del retrobottega profumi, varietà, gesti e antichissime ritualità del mestiere fino a quando non diventeranno galeotte in un innamoramento reciproco e prudente, con quella figlia ormai ventenne e mai conosciuta rimasta nascosta nel suo passato e che ora ha paura di andare a trovare perché non vorrebbe mai imporle il nuovo trauma di perderlo ancora dopo averlo ritrovato, con quel figlio coetaneo e invece “ufficiale” a cui il padre si vergogna di dire ciò che il ragazzo intuisce da solo e non considera in alcun modo un problema, e con quella moglie di un matrimonio ormai ampiamente finito che allarga le vedute e ormai accetterebbe più o meno di buon grado i nuovi amori di Cai, mentre i genitori di lei, al contrario razzisti, sospettosi e classisti nella loro generazione, «non potrebbero mai capire». Un continuo gioco di detti e di non detti, di sentimenti e di conformismi, di passioni brucianti e di necessità di dissimularle, di donne-doppio che nei loro vestiti rossi sembrano quasi contrapporre non solo due etnie e culture ma anche il passato e il futuro, in cui la chiave di volta è appunto imparare ad aprirsi, smettere di mentire a se stessi e agli altri, affrontare finalmente l’inaffrontato liberandosi dei pesi più antichi e soffocanti, senza più paura di svelare per come sono le proprie debolezze. E poi ancora viaggiare, insieme verso una piantagone o da soli verso un momento atteso da tutte e due le parti per vent’anni, per (ri)scoprire le diverse possibili forme dell’affetto. L’unico modo per riuscire di nuovo ad amare, forse. Di certo l’unico per fidarsi reciprocamente, perché un’attrazione o un patrimonio genetico diventino reale appartenenza delle anime, e perché un dolore possa virare verso la gioia più intima e profonda. È per questo che anche gli altri personaggi che fra negozi e condivisione degli spazi popolano lo stesso universo, perfettamente reale come quello della città costiera del Sud della Cina (per quanto ricostruito per esigenze produttive a Taiwan) eppure in qualche modo astratto nella sua mescolanza etnica, nelle sue contrattazioni arabo-mandarine e nei suoi spazi che lo sguardo di Sissako rende sfumati e onirici, si muovono sul medesimo confine fra interno ed esterno, fra vero e falso, fra sincero e imposto. Come quando la giovane apprendista della bottega diventerà sostanziale sentinella dell’amore che sta nascendo nascosto nel ventre delle retrovie, suonando il campanello in maniera diversa a seconda di chi si presenta al bancone a chiedere di Cai, o come quando durante la notte il negozio di trucco e parrucco africano diventa il luogo dove cantare e ballare una cultura lontana, ritrovando una casa e un’appartenenza identitaria a migliaia di chilometri di distanza. Il resto sono le foglie da separare, l’odore da lasciare entrare dolcemente fino alle viscere, i gesti da compiere sempre identici, i tre sorsi tradizionali con cui «giungere al sentimento». Sono il rispetto, l’armonia, la purezza e la tranquillità che i testi zen attribuiscono da millenni al rito. Sono la passione e la cura necessari perché la cerimonia possa andare a buon fine. È la ricerca di un nuovo punto di equilibrio fra due mondi, o forse semplicemente fra due anime che non hanno più bisogno di fingere, se non per un’ultima (?) volta. È un cinema costantemente in viaggio senza meta, che forse non rappresenterà proprio gli apici di quello che è probabilmente il più importante autore subsahariano vivente, ma che è onestamente molto difficile non tenersi stretti nel suo fascino misterioso, nelle sue stratificazioni identitarie, nel suo apporto umano e nella sua strabordante sincerità. Un cinema che a differenza dei suoi personaggi nella sua dichiarata finzione non racconterà mai e poi mai una bugia. Nemmeno a fin di bene.
Marco Romagna