BLACK CAT (1981), di Lucio Fulci
Non è tanto la rilettura libera e infedele di Edgar Allan Poe a fare grande Black Cat, né i suoi snodi narrativi che declinano i temi di odio represso e vendetta proposti nell’omonimo racconto dal grande romanziere americano in una vicenda fatta di pratiche occulte e condotti dell’aria condizionata, di incidenti automobilistici e di fotografie ai cadaveri graffiati, di ambiguità e di incendi. Certo, c’è il felino dal manto più scuro da sempre simbolo archetipico di stregato e malefico, c’è la sua perfetta identificazione nel Male assoluto, ci sono le sue unghie e i suoi soffi, c’è la sua eleganza nelle corse sui tetti, c’è la sua (inutile, perché tentare di uccidere la morte serve solo a fortificarla) impiccagione, e non può mancare neppure il finale nel quale sarà proprio Il Gatto Nero, proprio come in Poe, a far scoprire la donna murata alla polizia e a battere definitivamente l’uomo assicurandolo al carcere. Ma non è questo il vero punto di Black Cat, non lo è mai stato. Ciò che il film cerca(va), e ciò che lo rende ancora oggi unico e straordinario non solo nel panorama del gotico italiano, sono le scelte di messa in scena di Lucio Fulci, regista poliedrico e sottovalutato, artigianale quanto acuto, e forse mai così raffinato. Nel 1981 il cineasta trasteverino aveva già portato a termine buona parte della sua filmografia, dalle commedie (non di rado sexy) ai gialli, dagli spaghetti western ai postatomici, e già da fine anni Settanta era definitivamente passato agli horror – dei quali peraltro non è difficilissimo cogliere più di qualche elemento già nei suoi film precedenti – specializzandosi nello splatter. Black Cat è però un qualcosa di diverso, da un lato considerabile come unicum nel periodo orrorifico del regista per il tutto sommato scarso uso di sangue finto ed effetti speciali caserecci così come per la totale assenza del classico campionario di decapitazioni e parti di corpo asportate, dall’altro una sorta di compendio dell’intera filmografia di Fulci per la sua capacità di generare un’atmosfera d’orrore soprannaturale prendendo a prestito, e ricontestualizzando fino a riscriverne il senso, elementi fondanti di altri generi cinematografici.
Black Cat, proiettato in DCP sugli schermi sabaudi del Torino Film Festival 2017 dopo la recente (meno pulita ma più nobile) proiezione in un 35mm splendidamente claudicante all’ultimo Festival I Mille Occhi di Trieste, è infatti un film di dettagli, di audaci zoomate, di musiche incalzanti, di soggettive ad altezza felino capaci di anticipare il Sam Raimi de La casa e di straordinaria fluidità, in un 1981 in cui l’allora recentissima steadycam era ancora ad appannaggio delle sole superproduzioni hollywoodiane. È un film di animali sui tetti e per le strade, di misteriose apparizioni, di tombe, di microfoni, di scheletri ricoperti di polvere, di ritmi serrati, di movimenti di macchina iniziati e genialmente non conclusi prima del successivo stacco di montaggio. È un film parapsicologia e di ipnosi, di gatti che non si fanno comandare, di miagolii e di graffi che puntualmente annunciano la morte “accidentale”, di sequenze di straordinaria suspense quando il gatto prepara l’attacco, di tentativi, quindici anni dopo Blow-Up, di risolvere ancora una volta un caso attraverso gli scatti fotografici – e quindi, come ribadito nello stesso anno da De Palma con Blow Out, attraverso i fotogrammi del cinema – e di utilizzi impropri del flash per abbagliare l’aggressore proprio come il Jimmy Stuart de La Finestra sul cortile. Ma soprattutto Black Cat, ben conscio della lezione impartita dodici anni prima da Sergio Leone con la tensione palpabile dell’incipit di C’era una volta il West, è un film di sguardi, di attese, di sfide. Di occhi, quelli azzurri, verdi o nocciola degli uomini – siano essi mefistofelici o terrorizzati, e ancor di più quelli gialli del gatto nero, le pupille come spicchi aguzzi verso l’alto, la capacità di penetrare la notte, e probabilmente di odiare. Il gatto è l’assassino, questo non viene mai messo in dubbio, e la sua capacità di uccidere sta tutta negli sguardi e negli attacchi, nella sua eleganza e nella sua aura diabolica. Fulci costruisce, con Black Cat, un trattato di messa in scena e di montaggio, nel quale tutti gli elementi (la fotografia cupa, i colori saturi, l’audio martellante) concorrono a mozzare il respiro, a manipolare le emozioni dello spettatore, a creare suspense con ogni singolo movimento, con ogni singola situazione, con ogni singolo zoom. Ammanta di autorialità il cinema di genere, adattando all’horror una commistione di linguaggi, innestando il western nel gotico e poi lavorando sul ritmo di ogni inquadratura, sull'(a)simmetria, sulla profondità di ogni fotogramma.
Il resto lo fanno gli occhi del grande Patrick Magee, le sue sopracciglia bianche e arruffate che già Kubrick aveva immortalato nello scrittore di Arancia Meccanica, il suo cipiglio ambiguo, ora truce e ora addolorato, ora inquietante e ora sofferente. Sta nel suo personaggio, il dottor Miles che registra i cadaveri e “vede” gli omicidi attraverso gli anelli di chi è stato ucciso, tutto il dubbio sul quale si innesta la crime story di Black Cat, tutta l’indagine personale della fotografa Jill, americana di stanza in Inghilterra, e tutta quella decisamente più ufficiale di Scotland Yard, con tanto di ispettore munito di pipa e cappello d’ordinanza. Da che parte sta Miles? E il Gatto Nero omicida e figlio dell’odio che vive a casa sua “Perché non possiamo fare a meno uno dell’altro” è in qualche modo controllato o controllabile dal dottore? O forse è il dottore a essere controllato da lui? Il Male assoluto incarnato dal Gatto Nero sconvolge un apparentemente tranquillo paesino una decina d’anni prima che il BOB di Twin Peaks uccidesse Laura Palmer e cinque prima che il ritrovamento dell’orecchio di Blue Velvet aprisse al sommerso d’America. Fulci immerge nella stessa atmosfera mefistofelica che sarà di Lynch un villaggio della brughiera britannica, fatto di tetti e di prati, di casette e di fiumi che scorrono, di cimiteri e di vecchi conti in sospeso. Parte da una certezza, la colpevolezza efferata del gatto, per instillare un sospetto crescente verso il dottor Miles che trova conferme nel soprannaturale fino a vincere nel sangue ogni resistenza razionale, ma al contempo viene smentito dal suo reale tentativo di uccidere il gatto per riportare le cose alla normalità. Fra case in fiamme che non possono che preludere a roghi umani e piccoli incendi che proiettano e cristallizzano la colpa sui muri, fra chiavi fatte sparire attraverso il condotto dell’aria condizionata e attacchi a ubriachi o a ispettori di polizia, fra incidenti automobilistici, graffi e miracolosi spostamenti, Black Cat uccide, creato dall’odio di Miles fino a fargli perdere il controllo e poi a prendere il sopravvento su di lui, a comandarlo, e infine a vendicarsi con il suo miagolare dietro al muro. Il Gatto Nero, il Male, non si può battere. Si può solo sperare che il suo odio represso, come quello del suo sinistro padrone e creatore, non colpisca. Ma, come detto, non è la rilettura libera e infedele di Edgar Allan Poe a fare grande Black Cat, e non sono i suoi snodi narrativi, nei quali può anche capitare che una stanza inizi a levitare mossa dalle forze del maligno senza che poi la cosa venga ripresa, perché quello che conta è la suggestione, non la solidità. Black Cat è la capacità di creare un mood con il solo uso della macchina da presa e della moviola, è la capacità di cercare dettagli e occhi, è la capacità di colpire e attaccare con una regia straordinaria, la regia di Lucio Fulci. Non solo un Autore, un Maestro.
Marco Romagna