BEYOND THE WALL (2022), di Vahid Jalilvand
Dipende solo da che cosa si vuole vedere, “oltre il muro” di Beyond the wall. Perché se è vero che l’impianto narrativo orchestrato da Vahid Jalilvand, dopo un’ottima partenza e lunghi tratti di eccellente tenuta psico-thriller-neorealista, finisce alla lunga per sfilacciarsi in qualche reiterazione non necessaria e in un plot twist finale telefonato dai troppi indizi ma che soprattutto per la prima volta fa scivolare il film nella retorica, depotenziandone di fatto l’intera vis politica e psicologica, rimane sempre straordinariamente coerente il volto smaccatamente teorico dell’operazione messa in scena dal giovane autore iraniano, quel suo ostinato far passare tutto rigorosamente per il suono che rende difficile non pensare a Beyond the wall come a un film sul sonoro nel cinema, sulla sua capacità di creare e improvvisamente ribaltare la tensione e l’umore, di plasmare l’immaginazione, di evocare ricordi e riportare racconti, di stravolgere il tempo, lo spazio, le identità. Complice lo straordinario e stortente sound design di Dariush Sadeghpour e Alireza Alavian, ma anche i tappeti musicali affidati a Olafur Arnalds e Mohammadreza Shajarian, l’opera terza con cui Jalilvand torna a Venezia, questa volta promosso al concorso principale dopo i due premi ottenuti con il suo No date, no signature (uscito nel frattempo in Italia con il ben meno evocativo Il dubbio – un caso di coscienza) nella Orizzonti del 2017, sceglie sin da subito l’udito come senso principale su cui ragionare, a partire dalla ormai pressoché totale cecità del protagonista Alì che, per sopravvivere, deve necessariamente basarsi sul tatto ma soprattutto sull’ascolto. Eppure Alì non vuole sopravvivere, per lo meno non all’inizio, in cui tenta uno straziante e spettacolare suicidio cercando di soffocarsi nelle squallide docce del suo appartamento. Sarà ovviamente un suono a farlo desistere, il forte e insistente bussare del portiere alla sua porta, per annunciargli che è probabile che nel palazzo di nasconda una ricercata, e come la polizia abbia già circondato lo stabile in attesa di stanarla. Proprio come sarà un suono, la telefonata notturna a bassissima voce di Leila nascosta nell’appartamento che Alì registra e riproduce per farla uscire allo scoperto, a permettere il loro incontro – «non ti faccio nulla, non devi avere paura». Tanto che non è affatto un caso che anche per la vedente Leila, fuggiasca disperata che ha (letteralmente) smarrito il figlio durante l’arresto per una manifestazione sindacale al quarto mese di stipendi non pagati, passino sempre per l’udito (o la sua mancanza, quando il cellulare si scarica) tutti i principali snodi della sua personale parabola, tutti i dolorosi ricordi che le riemergono nei drammatici flashback quando i rumori nella stanza le ricordano proprio l’istante del trauma, tutte le sue crisi di pianto e tutti i suoi attacchi di epilessia quando i nervi definitivamente cedono fra il momento della paura e quello dell’incertezza, fra il momento in cui la piazza si infiamma e quello in cui non sa che fine abbia fatto il suo bambino spaventato nel marasma, fra il momento in cui cade riversa all’indietro nel cellulare della polizia e quello in cui rivive il momento e il dolore nella casa di Alì. In fondo, anche quando Leila diventerà gli occhi di Alì spiegandogli cosa riesce a vedere fuori dalla finestra non sarà nient’altro che la parola del racconto orale, e quindi ancora una volta un suono, una voce fuori campo nell’eterno buio ipovedente del protagonista, a ergersi a narrazione, forma, linguaggio, cinema. Che, ancora una volta, ragiona su se stesso, sulle sue parti, sulle sue potenzialità, sul suo senso.
Il resto, come si diceva, è un thriller psicologico che affonda le radici nelle ingiustizie e nei soprusi (spesso in divisa) della società iraniana di oggi, sospeso fra la luce accecante e il buio più totale, fra l’umanità e il senso di colpa, fra la realtà e la (necessità di) immaginazione. Fra il sacrificio per gli altri che diventa ragione di vita e l’illusione da ricreare e da rivivere per fuggire da una realtà ancora più ingiusta, ancora più devastante, ancora più impossibile da accettare. Si mescolano i piani temporali, in Beyond the wall. Si mescolano le persone e le circostanze, i gesti e le reazioni, in un limbo incubale nel quale ogni dialogo e ogni situazione tornano almeno due volte, sul camion e poi in casa, e poi ancora sotto l’occhio delle reclusive telecamere di sorveglianza. Con una pistola consegnata quando «le cose stanno peggiorando, se arrivano ti sparano», e nascosta sotto un sedile, o forse sotto il cuscino di un divano, o magari semplicemente mimata con l’indice e il pollice nel delirio allucinatorio da cui passa l’unica possibile sopravvivenza. Insieme, in solitudine, o magari da lontano e per lettera, scritta o letta ad alta voce, recapitata in un mondo o nell’altro e pazientemente ascoltata dalla voce di chi ancora può vedere e leggere, o forse ancora solo ed esclusivamente immaginata, nella consapevolezza o per lo meno nell’illusione di aver salvato una vita. Un percorso fatto di paralleli uditivi, di (ex) autisti e di invalidi soli, di una legge che è pura minaccia e di madri innocenti che, disperate, vorrebbero solo ritrovare il loro figlio. Ma anche e soprattutto di un orrore passato che si innesta ripetutamente nel presente, e di un futuro dal quale tornare indietro e ripercorrere il dolore del trauma diventa l’unica possibile salvezza, l’unica possibile speranza, l’unico possibile modo per ritornare umani, gentili, altruisti, e così tenere duro nell’oppressione e nell’aver perso tutto – la vista, la libertà, la consapevolezza dei luoghi, la vita per quello che era sempre stata. Fra la realtà e la memoria, la colpa e la non colpa, la (auto)narrazione e la pura immaginazione, Jalilvand mette in scena i primi piani delle inquadrature casalinghe e i tremolii da war movie della macchina a mano al momento dei flashback sulla manifestazione, gli scontri di piazza e le grida strazianti dell’arresto, o ancora l’alternanza dei bianchi fuori fuoco che abbacinanti e inafferrabili squarciano il buio dei nervi ottici ormai danneggiati e la carrellata all’indietro dell’ultima inquadratura sulle finestre tutte uguali che ancora una volta grida esplicitamente, senza più bisogno di rifugiarsi nelle allusioni o nelle metafore, tutta la portata del suo j’accuse alle storture su cui sembra fondarsi l’intero sistema, l’intera società, l’intera forma mentale del suo Paese. E poco importa, a questo punto, della ripetitività delle crisi nervose di Leila, di un ribaltamento di prospettiva finale forse più ‘spettacolare’ che realmente di senso, o delle lungaggini riscontrabili qua e là in un film che comprime fra quattro mura una tensione costantemente sul punto di esplodere, e che si lancia sulle strade del cinema mainstream di genere per affrontare di petto il (non) delitto e il castigo, il martirio e la salvezza, il tempo e lo spazio, l’oppressione e l’identità, la prevaricazione del potere (la polizia, i datori di lavoro, ma anche l’amministratore di condominio) sul popolo. Ma soprattutto le possibilità del suono, la sua capacità di riecheggiare istanti e situazioni, la sua capacità di trasportare in altri tempi, in altri luoghi, in altre narrazioni, in altri brandelli di vita. In altri sogni (cinematografici), fatti di vecchie/nuove immagini in movimento che sempre si rincorrono come l’ultimo baluardo di libertà, come l’ultima residua forma di Resistenza.
Marco Romagna