BENTU (2022), di Salvatore Mereu
«E l’occhi la burricca aia
di lu mare
e a iddu da le tive escia
lu Maestrale»Fabrizio De André, Monti di Mola
Apparentemente non “succede” quasi nulla, in Bentu. E invece, nell’attesa che la bonaccia lasci lo spazio alle folate che questa volta sembrano non volersi ripresentare, c’è il rapporto fra l’uomo e la Natura, c’è l’imprevedibilità del tempo che scorre e si modifica nella percezione di una società che cambia, c’è la tradizione millenaria che cede progressivamente il passo alla meccanizzazione dell’agricoltura, c’è lo scontro generazionale fra chi ancora crede profondamente nelle tradizioni secolari da seguire e tramandare e chi invece le vede come un gioco, come un passatempo pre-estivo con cui passare il tempo in attesa di essere abbastanza grande per potere di fatto giocare ancora, montando su quella cavalla selvatica ancora da domare. Ma soprattutto, nel nuovo e sorprendente lavoro con cui il sardo Salvatore Mereu si conferma ancora una volta e di gran lunga fra gli autori più interessanti dell’intero panorama italiano contemporaneo, c’è una strabordante potenza di sguardo e di messa in scena, un fascino magnetico e ammaliante per il quale bastano due soli (non) attori, un singolo animale e il l’abbacinante nitore di una parabola narrativa forse minimale più ancora che essenziale per riuscire a filmare il vento e la sua mancanza, l’usanza più arcaica di offrire (letteralmente, lanciandolo in aria con i forconi) il raccolto al vento e l’arrivo delle moderne trebbiatrici, il latte conservato come fosse filu e ferru al fresco nel pozzo e i panini con il pecorino fresco casereccio, le anguille pescate al fiume con le mani e la maglietta in cui sono rinchiuse da sbattere sui massi, il canto popolare a cappella e la Natura che tanto dà e tanto toglie pretendendo prima o poi i suoi tributi di sudore e di sangue.
Due anni dopo Assandira presentato al tempo fuori concorso, Bentu (che poi nient’altro vuole dire che “vento” in sardo) segna l’ennesimo sbarco di Salvatore Mereu al Lido di Venezia e alla sua Mostra del Cinema, questa volta ospitato nella sezione parallela, indipendente e competitiva di Giornate degli Autori. Un film piccolo e bellissimo, profondamente pandemico (o forse è solo l’isolamento intrinseco della Sardegna, filmata nel suo cuore più profondo) nel suo ridurre al minimo personaggi, location e situazioni, e profondamente olmiano nel suo rapporto viscerale con i campi, con la terra, con gli animali, con il paesaggio. Un progetto nato da un laboratorio annesso al corso di laurea in Produzione Multimediale dell’Università di Cagliari con cui uscire dalle mura dell’ateneo per realizzare insieme un’opera audiovisiva, e diventato nel frattempo grandissimo cinema fatto con poco o nulla, ma con una ben precisa visione, un ben preciso talento, una ben precisa ambizione. La messa in scena di uno (stra)ordinario momento di sospensione temporale con cui riflettere sul tempo, lungo il sentiero di un’attesa sempre uguale eppure colta proprio alla vigilia della sua unica rivoluzione già iniziata e ormai inarrestabile. Un film che respira in un rapporto umano che quotidianamente cresce, si sviluppa e si fa sentimentalmente più profondo, eppure rimane bloccato nella sua incomunicabilità, nell’essere o non essere «adatti a fare i contadini», nell’irricucibile strappo fra la disciplina dell’uomo antico e l’orologio che corre più veloce giovane rampante e un po’ selvaggio, già figlio di un’altra era. Fino alla dilaniante sorpresa di un finale magnifico e pasoliniano, nel quale la Natura ristabilirà ancora una volta il suo predominio sull’ὕβρις, tecnologica ma soprattutto esistenziale, dell’uomo.
Siamo più o meno negli anni Cinquanta del Novecento, ma in realtà, al di là dell’arrivo dei primi macchinari agricoli, Bentu potrebbe essere ambientato in un qualsiasi momento di una Storia iniziata in epoca romana, con la Sardegna eletta a principale granaio del Mediterraneo, e andata avanti per secoli e per infinite generazioni di contadini sempre in attesa del vento, con l’aiuto del quale ripulire i cereali già falciati separandoli dalla più leggera paglia. Raffaele, ormai anziano pastore per il quale Mereu ha voluto a ogni costo il Peppeddu Cuccu già interprete da bambino di Banditi a Orgosolo di De Seta (straordinariamente affiancato, in una sorta di passaggio di consegne anche fra gli attori-non-attori contadini sardi, dal precoce talento del giovanissimo Giovanni Porcu esordiente ad appena dieci anni), si è temporaneamente trasferito per il tempo del raccolto dalla casa in paese alla baracca in mezzo ai campi, illuminata al lume di candela e con le pentole a gorgogliare sul fuoco del camino, con l’acqua da andare a prendere al pozzo e con il nipote Angelino che quotidianamente fa la spola da casa per andarlo a trovare. L’unica interruzione in una routine ancestrale e solitaria, a cui tentare di trasmettere, rigorosamente in lingua sarda (l’italiano è «la lingua per le lettere» dalla caserma del figlio, non certo quella con cui esprimersi nel quotidiano), quella cultura e quel rispetto del tempo naturale che l’avanzare della modernità stava facendo rapidamente sfilacciare fino a perdersi.
Del resto è un film intriso della terra su cui poggia il treppiede della sua macchina da presa, Bentu. Un film che non può prescindere dalla sua Sardegna rurale e fuori dal tempo, lontana dal mare e dalle cartoline, in cui il fulgore del sole è abbacinante e il buio della notte è quasi totale, con solo qualche sporadica fiammella a rischiarare le uova dentro al piatto. Una (doppia) fotografia, firmata da Francesco Piras, che da una parte abbaglia nella luminosità e nelle saturazioni dei colori caldi, e dall’altra seduce (come già qualche anno fa il Fasulo di Menocchio) nei contrasti di profilo e nelle oscure silhouette dei personaggi soli al lume di candela. Il resto è un’attesa fatta appunto di giorni e di notti, di luce e di buio, di gioia e di dolore. Di simboli di vita che sono anche simboli di morte – il vento, il fuoco, ma soprattutto la falce con cui raccogliere il sostentamento dai campi, da sempre emblema del tristo mietitore. Persino il grano, così sgargiante nel suo giallo che sembra solleticare l’azzurro del cielo, è al contempo ricchezza e fatica, sostentamento e frustrazione, festa e tragedia, passato e futuro, con Raffaele ancora in attesa della Natura armato di falce e forcone mentre i campi dei paesi vicini sono già stati rapidamente trebbiati dai trattori nell’entusiasmo crescente di Angelino. Ma «il vento arriverà». Anche quell’anno, come sempre. Si tratta solo di saperlo attendere nella reiterazione delle piccole abitudini quotidiane, nella consapevolezza di portare avanti una tradizione, nel tentativo di tramandarla intatta alle nuove generazioni. O forse di scoprirla definitivamente, tragicamente dispersa. Dipende solo se sarà brezza o burrasca, e quale sarà la direzione verso cui deciderà di soffiare.
Marco Romagna