E se davvero il confine fra la vita e la morte si trovasse in un qualche punto imprecisato della crescita, nascosto proprio fra l’affetto e le coccole, fra la protezione e la memoria, fra la mancanza e la gelosia? Parte da un’intuizione folle e geniale Benny loves you, indipendentissimo esordio davanti e dietro la macchina da presa del britannico Karl Holt, che con un budget ridotto ai risparmi personali, qualche amico disposto ad aiutare e la madre gratis nel ruolo di fonica, ma anche un talento cristallino e l’assoluta libertà di chi sa trasformare i limiti in pura creatività, prende quelle bambole e quei peluche ai quali chiunque è cresciuto abbracciato – e che inevitabilmente chiunque, prima o poi nella vita, ha abbandonato in un ripostiglio – e infonde loro vita fino a renderli teneri quanto spietati serial killer per amore, incapaci di fermarsi pur di continuare a proteggere il loro amichetto da ogni sconfitta, del tutto inconsapevoli del bene e del male. Una premessa assurda che è evidente allegoria di una società in cui è sempre più difficile e meno anagrafico abbandonare del tutto l’infanzia e passare all’età adulta, ma anche una ben precisa volontà “politica” di buttare in caciara, fra l’inquietudine gore dello splatter e le sincere risate di una commedia che flirta intelligentemente con il demenziale e con lo scorretto (basterebbe il robottino AIDS da regalare ai bambini…), la retorica anglosassone del winner e del loser, con le sue insulse musicassette motivazionali e il suo discutibile (dis)umano individualismo. Se nel 1989 della Palombella Rossa morettiana l’allora trentacinquenne Michele Apicella interpretato dallo stesso Nanni Moretti quasi impazziva all’idea che le merendine dell’infanzia non sarebbero più tornate, esattamente all’opposto per il trentacinquenne Jack messo in scena da Holt è impossibile liberarsi del tutto del passato, è impossibile svestire le magliette dei Gremlins e dei Goonies, è impossibile abbandonare quel vecchio pupazzo Benny che per quasi tutta la vita lo ha protetto nei suoi sogni di bambino ogni giorno e ogni notte, perché fa parte della sua identità, del suo essere, dei suoi affetti. Anche se costretto a crescere dalla morte contemporanea, improvvisa quanto assurda, dei genitori, dalle difficoltà sul lavoro, dalla necessità di vendere la casa per pagare i debiti, dall’inaspettata scintilla amorosa e dalla ferrea volontà di dare una sterzata alla sua vita, quel peluche parlante rosso e sorridente gli si ripresenterà sempre di fronte, non più inanimato ma con un coltello insanguinato fra le mani, e con il suo trionfante preimpostato ta-dah a “regalargli” un nuovo cadavere martoriato fra la cucina e il salone. Prima l’impiegato della banca addetto alla riscossione dell’ipoteca, poi l’agente immobiliare che cerca di vendere la casa, e poi persino il macchiettistico capo dell’azienda di giocattoli in cui il protagonista lavora (più o meno, fra un declassamento e l’altro) come progettista, in attesa del massacro finale di (quasi) tutto l’ufficio. Senza poterci fare nulla, senza riuscire a fermarlo. Nemmeno il cagnolino da compagnia verrà risparmiato dalla furia sanguinaria del giocattolo geloso e iperprotettivo, e nemmeno gli altri giocattoli trasformati in combattenti che Karl Holt, fra i Toy Story e i Robot Wars televisivi della BBC, continua a inventare e animare, nascondendone il costo vicino allo zero sotto il brillante tappeto visivo di una creatività sfrenata e di una straordinaria perizia tecnica, fotografica e linguistica.
Del resto è frutto di un montaggio lungo più di quattro anni, Benny loves you. Un horror-comedy che sa realmente spaventare e sa realmente far sbellicare dal ridere, film di mezzanotte talmente perfetto che diventa ancora maggiore il rimpianto per il forzato spostamento online di questo Trieste Science+Fiction 2020 privato all’ultimo delle proiezioni pubbliche, dove i salti sulle poltrone sono sempre più fisici e le risate sono sempre più fragorose. Un film giocato tutto sull’assurdo e sull’equivoco, sull’anticipazione e sulla contrapposizione, sulla sfumatura e sul repentino cambio di tono, perfettamente consapevole degli stilemi dei generi e altrettanto perfettamente a suo agio nel seguirli per poi ribaltarli a piacimento, nel solco di John Landis e di Ivan Reitman, di Joe Dante e di John Carpenter, di Wes Craven e di Mel Brooks, e con più di un occhio alle aperte parodie zombie di Edgar Wright. In questo senso, è forse prima di tutto un film sul cinema Benny loves you, una dichiarazione d’amore totale e infinito, un atto di fede, un personale ripercorrerne i sentieri fino a trovare i medesimi risultati dell’alto budget nella pazienza e nella passione casereccia. Bastano una bambola di pezza e la capacità di inquadrarla e montarla, basta un’idea forte, basta una cieca fiducia in se stessi e nel mezzo. Come a dire che i sogni di quel bambino che voleva fare cinema ci sono ancora, intatti, indelebili, impossibili da mandare via. Una furia cinefila che si poteva raccontare solo mettendo in scena una paradossale ed esilarante furia omicida, che a sua volta nient’altro è che l’impossibilità (e nemmeno la particolare voglia, a dirla tutta) di crescere, quando crescere vuole necessariamente dire snaturarsi e adeguarsi ai meri calcoli di produttività del sistema. Un po’ come quei poliziotti del tutto inetti che nemmeno sanno distinguere il sangue dalla vernice, o come quei colleghi di lavoro altrettanto fallimentari ma decisamente più arroganti del protagonista. Tutti ingredienti di un valzer macabro di coltelli e teste mozzate, macchie di sangue e saltelli felici della bambola di pezza assassina, succhi gastrici nell’aspirapolvere e spettacolari foto degli omicidi, in un’assoluta e splendidamente cinedelirante anarchia narrativa. C’è Benny che uccide per amore, c’è Jack che riesce a liberarsi del suo passato da perdente, e ci sono tutti i giocattoli prima preferiti e poi abbandonati del mondo che prendono vita e diventano pericoli mortali. Fra le lame di luce nel buio e il brillare dei coltelli, fra la quasi perfetta fluidità delle marionette e le spidercam che ne rallentano il volo in una pioggia di vetri, fra lo scorrere a fiumi del sangue e i messaggi nemmeno troppo subliminali («Die, whore!») che Benny scrive sulle pareti, fino alla bambola da accoltellare in una tempesta di piume. Non serve a nulla seppellire, non serve a nulla barricarsi in casa, non serve a nulla tentare di convincere a non uccidere, e ancora a meno serve smettere di festeggiare i compleanni. La miccia surreal-slasher ormai è innescata, che porti o meno il passamontagna, che sia già in casa o che debba rispuntare dal cesso, o ancora che sorrida sul fondo del portabagagli dell’auto. Pronto a uccidere ancora, serafico ed entusiasta, spietato ed esibizionista. Eccolo, il cinema! Bentornato.
Marco Romagna