BENEDETTA (2021), di Paul Verhoeven
È ancora una volta Catherine Tramell che accavalla le gambe, il cinema di Paul Verhoeven. Un cinema di perturbanti bivi di senso e di pruginose ambiguità, di contorni sfumati e di allusivi vedo non vedo. Un cinema di doppiezze consapevolmente sospese sul crinale fra il kitsch e il sublime, nel quale le possibili interpretazioni sono sempre opposte e allo stesso modo legittime perché non esistono mai una verità e una menzogna, ma semmai il dubbio irrisolto e irrisolvibile, eterno dilemma fra la fiducia e la malizia, fra l’erotismo e la violenza, fra la Fede e l’eresia, fra il trascendentale e il blasfemo, fra il reale e la messinscena. Del resto, che cos’è un miracolo se non un fatto inspiegabile, che può essere tanto un intervento divino quanto un semplice caso, o ancora un qualcosa di previsto e attentamente costruito proprio come nel cinema? E come è possibile misurare il confine fra la reale possessione divina e la voce scientemente camuffata per recitare a soggetto un ben preciso canovaccio? Come nessuno al mondo potrà mai dire al di là di ogni ragionevole dubbio chi sia effettivamente l’omicida di Basic Instinct, nessuno al mondo potrà mai sapere se la saffica suor Benedetta Carlini di Benedetta, realmente esistita e processata nel diciasettesimo secolo della controriforma, fu realmente una mistica capace di miracoli sul limitare della santificazione o una falsa profetessa, glaciale calcolatrice con un piano ben preciso e la capacità di rappresentarlo fino in fondo manipolando la realtà, il caso e il suo pubblico fino all’aperta antistoricità di una rivolta impossibile, o meglio possibile solo nell’alveo immaginifico della settima arte, nel dispositivo, nell’effetto speciale. Lo stesso delle scene sacre rappresentate dalle suore sul palcoscenico del villaggio, lo stesso delle sue visioni in cui Gesù Cristo appare come un deus-ex-machina a desiderare ed essere desiderato, lo stesso delle stigmate della protagonista, della sua fronte insanguinata e della sua spettacolare resurrezione da morte, lo stesso della sua uscita illesa dal rogo. Ma anche lo stesso del suo primo miracolo da bambina sulla strada per Pescia, l’invocazione a Dio chiedendogli un segno e un uccellino che sbuca fuori da un albero riempiendo di guano i briganti che avevano appena rapinato i suoi genitori, convincendoli, nel dubbio, a restituire il maltolto, e ancora lo stesso della sua aperta sessualità, fra le estasi mistiche nella relazione omoerotica con suor Bartolomea e la statuetta della Vergine levigata e trasformata nel dildo con cui raggiungere l’orgasmo, e quindi – «Mon Dieu», esattamente all’opposto del crocifisso nelle possessioni demoniache de L’esorcista – la religiosità celestiale e ascetica del più puro amore. In un film di confini e di ambiguità, anzi, l’unico confine che pare non esistere è quello fra la spiritualità e la carne, elementi inscindibili che sin dalla prima notte in convento con quel bacio al seno della statua appena caduta addosso a Benedetta ancora bimba semplicemente coincidono, e costantemente si alimentano a vicenda in un vortice di desiderio, amore, potere, peste, morte e catarsi.
«Questo è un convento, mica un luogo di carità» dirà apertamente la badessa suor Felicita, pedina e simbolo di un sistema ecclesiale avido e mercificato al quale, ben più che le anime delle novizie, interessano le ricche doti che le loro famiglie versano sin dall’infanzia perché le loro pargole vengano consacrate a Dio. Un sistema che è l’incarnarsi della secolare ipocrisia della Chiesa, dove le bambine destinate alla vita monacale vengono contrattate come se fossero bestie al mercato, e nel quale suor Bartolomea riesce a intrufolarsi scappando dai ripetuti stupri del padre e del fratello solo perché l’abbiente padre di Benedetta sostanzialmente la comprerà come dama di compagnia per la figlia, sobbarcandosi anche la sua quota. Una donna giovane e bellissima che mai nella vita ha avuto uno specchio, ma che nel montare della sempre più irresistibile tensione erotica saprà specchiarsi negli occhi altrettanto belli di Benedetta, fino a quel proibito vedersi nude, ai reciproci sfiorarsi, ai baci, a quella tetta dolcemente stuzzicata attraverso un tulle, e poi alla libidine spirituale della loro completa comunione sessuale – l’orgasmo come unica strada per raggiungere Dio, il desiderio carnale come salvifica e allucinata professione di Fede. Un bramare per amare che forse non è reale lussuria e probabilmente nemmeno blasfemia, perché nulla, neanche le sequenze più estreme con cui Paul Verhoeven a cinque anni da Elle (ma senza pandemia sarebbero stati quattro, e senza un piccolo problema di salute a rallentare la postproduzione fino a poco dopo Cannes 2019 addirittura tre) torna in concorso sulla Croisette, può essere realmente blasfemo se si ribella a un mondo moralmente tanto corrotto. Nemmeno un Gesù vendicatore che armato di spada taglia la testa a uomini e serpenti lo è, nemmeno l’ossessione allucinata di farci l’amore, e men che meno la Madonna diventata membro con la quale entrare nella trance mistica dell’orgasmo. Del resto pure Alfonso Giglioli, nunzio papale in terra fiorentina che dagli ori della sua amoralità presiederà l’Inquisizione chiamata a giudicare Benedetta, sembra ben più interessato alla sua sessualità che alle eresie di cui è accusata, e la stessa madre superiora Felicita all’interno del convento (non) nasconde quella figlia che sarà la maggiore oppositrice dell’ascesa di Benedetta fino a mentire (per far emergere il vero?) ed essere condannata all’umiliazione (finale) dell’autofustigazione. Eppure, fino alla denuncia per eresia ai tribunali religiosi e alla confessione violentemente estorta a Bartolomea, Benedetta ne scalzerà lo stesso la madre dal ruolo, spinta da quel vescovado a cui la reputazione di una suora con le stigmate (e poco importa pure per loro se siano realmente segni divini o ferite autoinflitte, e nel secondo caso se sia stata una lucidissima malizia o la mano di Dio a guidare la suora in stato di trance) non può che fare comodo per rinsaldare la Fede delle genti del luogo. Specialmente in tempo di pestilenza, altra carne che questa volta si fa martoriata nei suoi bubboni. Saranno inevitabilmente gli inquisitori a portarla in città e a morirne senza poter sapere se finiranno in Paradiso o all’Inferno, costringendo ad aprire quelle porte che Benedetta aveva (intelligentemente, come ben sappiamo dopo quest’anno e mezzo pandemico) fatto chiudere. Una carne che, al pari di quella esposta nella camera delle torture, non è più desiderio ma dolore, eppure non smette mai di essere la chiave per l’amore e per la spiritualità. Perfino un cancro al seno in metastasi può essere la porta da cui lasciare entrare Dio, perfino una pira in fiamme, perfino una mano ustionata per recuperare le bobine di seta nell’acqua bollente, e forse lo può essere perfino quel divaricatore vaginale del «necessario» tradimento, quando il disegno (di Dio? di Benedetta? sicuramente di Paul Verhoeven e del suo straordinario e perturbante tessere cinema) è evidentemente più grande, e fra verità e menzogne le vie per portarlo a termine sono infinite.
Marco Romagna