È tra i film più iconici di Luis Buñuel, il padre del surrealismo e il più grande regista spagnolo di sempre. È forse il film che ha maggiormente consacrato Catherine Deneuve come divinità del corpo cinematografico, martoriata dallo sguardo crudele del collega di Dalì dopo essere già stata portata alla fama internazionale da Les Parabluies de Cherbourg (1964) di Jacques Demy, dal demone claustrofobico e angosciante della pedofilia in Repulsione (1965) di Polanski e da Les créatures (1966) di Agnès Varda, prima delle collaborazioni con Truffaut, Ferreri, Melville, Aldrich, Monicelli, de Oliveira, Carax, Philippe Garrel, Raoul Ruiz, Lars von Trier, Ozon e innumerevoli altri grandi registi. Ed è uno dei film con cui il Bergamo Film Meeting ha deciso di celebrare Jean-Claude Carrière, qui co-sceneggiatore ma collaboratore assiduo di Buñuel sin da Il diario di una cameriera (1964), poi col tempo legatosi anche ad altri giganti cinematografici fra i quali il succitato Garrel. Bella di giorno ancora oggi non smette di stupire, per la sua natura provocatoria e per le sue svariate originalità stilistiche e di approccio, ma anche per le differenze tematiche e visuali clamorose con altri film di Buñuel — un film con un’eredità immensa, sicuramente fonte di ispirazione per (tra i tanti) Le onde del destino (1996) di Lars von Trier, una sua sorta di antitesi spirituale. Carrière, nel video di presentazione che ha anticipato il film in 35mm a Bergamo, ha elencato una serie di chicche: innanzitutto dicendo che le fantasie della protagonista Séverine sono tutte praticamente delle messe in scena grottesche e oniriche di fantasie sessuali vere narrate da svariate donne a lui e a Buñuel personalmente, e inoltre ha aggiunto che dal romanzo di origine (1928) di Joseph Kessel hanno tratto solamente la struttura narrativa, visto che il materiale narrativo per iscritto si basava molto sulla descrizione dei ritmi della prostituzione e troppo poco sul desiderio e sul problema sociale.
La trama di Bella di giorno è, come tutte (o quasi) le trame di Buñuel, una trama universale e semplice, che trova una propria complicatezza nello scioglimento dei propri nodi e negli affluenti dell’enorme fiume costituito dai suoi personaggi e dalla sua estetica. Mantenendosi dunque sul generale, si può dire che Séverine è vittima di una repressione dei propri istinti sessuali violenti e, per liberarsi da quest’oppressione involontariamente auto-imposta, decide di prostituirsi ogni pomeriggio. Ampliando il commento, Séverine è l’ennesimo personaggio buñueliano ad essere vittima di una categorizzazione sociale soffocante, bloccata nel proprio corpo dalla propria noia, dalla propria estrazione e dalla propria collocazione in un mondo che non rispecchia il suo istinto. Il sesso per lei è un’esperienza psicanalitica, attraverso la quale il corpo di Séverine si rispecchia nelle morbosità di chi la circonda fino ad annullarsi e a subìre una depersonalizzazione che passa dalla sua classe sociale fino alla sua vera e propria sessualità. Un esempio di ciò può essere il bacio a stampo saffico che Séverine scambia con Madame Anaïs, la signora che dirige il bordello, al proprio primo giorno di lavoro, un bacio che Anaïs usa per tranquillizzare la protagonista e farla sentire a proprio agio, ma che finisce solo per alienarla rispetto all’intera situazione in cui si trova; eppure, quando Séverine abbandona il bordello verso la fine la situazione si ribalta, e la bellissima bionda protagonista prova a baciare Madame Anaïs ma viene allontanata, come se questo fosse invece un affetto profondamente fisico, che la “magnaccia” rifiuta con una pacatezza disgustata. L’atto semplice del bacio diventa anch’esso disgustoso, persino in un mondo in cui viene usato come convenzione sociale, come scambio amicale, come semplice, duro e puro; e questo succede quando la fantasia, l’aspetto più tragicamente surreale del film, sembra conquistare la realtà. Séverine infatti riesce sempre a distinguere in maniera abbastanza definita ciò che vive da ciò che immagina come folle proiezione sessuale dei suoi desideri di umiliazione (che non riuscirebbe mai davvero a percepire sulla sua pelle, ma a questo punto c’è il paradosso del cinema: perché Catherine Deneuve quelle umiliazioni le ha davvero subìte quando le scene sono state girate, tra fango in faccia e sadomasochismo), ma ciò smette di essere vero quando il giovane gangster Marcel si innamora di lei e allora il sesso passionale, intenso e violento delle proprie fantasie diventa qualcosa di troppo vicino alla realtà perché lei possa permetter(se)lo.
Nel rappresentare questa storia di sesso e tragedia, Buñuel ha optato per un film privo di colonna sonora, asettico, chirurgico, carnale ma paradossale nel non mostrare neanche un capezzolo o un pube (ma la violenza dell’umiliazione e la crudezza nella rappresentazione dell’amplesso è tale che la provocazione e lo scandalo sono arrivati in ogni caso ovviamente, quindi non sarebbe cambiato nulla). L’amore provato da Séverine è un amore proto-hippie e proto-sessantottino che denota un tentativo di fuoriuscita di classe attraverso un amore che allontana il corpo e avvicina gli spiriti, denotando un amore fisico universale e un amore chimico/sentimentale univoco anche se colmo di problemi di comunicazione: gli incontri con i clienti per Séverine altro non sono che incontri psicologici che le servono per capire meglio se stessa e il rapporto con Pierre, il marito da cui si sente distante sessualmente ma non emotivamente e a cui si sente maggiormente vicina proprio al culmine della propria carriera di prostituzione. Tra una citazione a Fino all’ultimo respiro (1960) di Godard e un cupo nobile che in Séverine cerca una manifestazione di una propria fantasia pseudo-necrofila, Bella di giorno si tramuta presto in un vortice di perversione crudele in cui in conclusione è la fantasia a prevalere sulla realtà, è la mente a prevalere sul corpo, è lo sguardo di Buñuel a prevalere su quello di Séverine, nonostante abbiano una cosa in comune: sono più concentrati sul mezzo che sul fine, più sul filmare che sull’essere apprezzati per lui, più sul fare sesso che sul ricavarne soldi. Il finale sulla scia utopica di L’ultima risata (1924) di Murnau è molto esplicitamente una cosa parodistica, che apre una finestra sul mondo demodé dell’istinto come represso in maniera definitiva dalle barriere visive del cinema, lo sguardo attraverso uno schermo, un vetro, una macchina da presa, un buco in un muro. Bella di giorno, a causa del suo status di culto e dell’importanza generale di Buñuel nel cinema europeo e non solo, è un film talmente imprescindibile che è stato detto tutto e non verrà mai, probabilmente, capito fino in fondo. È certo che è difficile, senza analizzare scena per scena, parlare davvero di un film talmente grosso e necessario, vero pilastro del cinema del nostro continente, ma se c’è una persona che probabilmente l’ha capito potrebbe essere Manoel De Oliveira, che nel 2006 ha avuto l’idea folle e ardita di fare un seguito del film, Bella sempre, in cui Séverine è interpretata da Bulle Ogier e Henri sempre da Michel Piccoli. Forse per completare il personaggio di Henri, interessante ma lasciato in sottofondo da Buñuel, o forse semplicemente per spiegare la grandezza del capolavoro del regista spagnolo a quasi 40 anni dalla sua uscita in sala, commentando l’incommentabile, ricostruendo la storia del cinema a partire dalle ceneri di un cinema nel contempo sporco ed elegante, in una maniera che, ahinoi, probabilmente non c’è più.
Nicola Settis