BEFORE THE BEGINNING (2015), di Boris Lehman e Stephen Dwoskin

“The question of ‘framing’ (and the pursuit of the frame) is the ‘look’–the look of the face and how the ‘face’ directs the body movement (towards and away) and through the eyes–the idea of the eyes being the extension of the ‘mind’–the expression of the inner subjectivity as it manifests itself externally–through the expression of the face–and the ‘gaze’ from the / by eyes. The camera also, is an extension of the eye – looking and capturing spontaneously as it relates, responds, feels about the other (the model’s response, mood, feeling)…” 
Stephen Dwoskin

Cosa c’è prima dell’inizio? Probabilmente nulla, comunque nessuno lo sa. Allo stesso tempo però sarebbe bello pensare che ci sia un frammento di amore a condensare il tutto, a far nascere le cose. In fondo nessuno puo’ conoscere nemmeno la sintesi della fine, l’attimo in cui tutto si perdera’ e forse solo le corrispondenze possono salvar(ci) dall’oblio. Un incrocio di visi, di bocche e di capelli, una serie di sguardi che si rincorrono a cercare un punto di fuga. Spensieratezza, gioco e forse gioia; inizia così questo film che in fondo nemmeno doveva essere, metafora dolce e non compiuta dell’incompiutezza assoluta di questo cinema (perché sempre troppo vicino a quella finitezza che è la vita). Prima dell’inizio forse c’e’ la scelta di campo, cosa vogliamo che resti nella nostra vita, e cosa cosi’ proviamo ad esorcizzare).

Poco ci resta da vedere dunque, di questa bozza di lavoro che esso stesso sarebbe dovuto essere una bozza. Ci son le visite di Boris Lehman a casa di Dwoskin, sorride mentre lo guarda, lo scruta, si sofferma a provare le macchine sempre più astruse che Stephen utilizza per le sue gambe. Infine poi sembra diventare soggetto ultimo del cinema di Dwoskin, di fronte allo specchio stesso Boris consuma le fragilita’ del suo corpo e si dona all’immagine; si mette in posa e diventa figura ispiratrice di un paesaggio possibile, che e’ gia’ quello del ricordo, del consumarsi irreversibile dei giorni. Nonostante la loro differenza di linguaggio e lo stile, si gioca continuamente ad imitare o addirittura a diventare l’altro. Super 8, 16mm, Video aggrovigliati, intrecciati, contorti in controcampi e giocosi scambi di punti di vista. E’ proprio il film a mancare mentre siamo noi che pensiamo al momento in cui saremo mancanti. Dall’altra parte c’e’ il dolore, la paura, l’erotismo, il ricordo e l’infanzia, Bataille pare abbracciare Jarry, il senso e’ solamente l’accettazione del non-sense della vita, e’ lo spazio che corre tra il cadere ed il rialzarsi, magari quando dalla nascita non puoi nemmeno camminare.

Il cinema di Boris Lehman è un’erranza continua di peregrinazioni non artistiche quanto terribilmente umane, un continuo mettersi a nudo / allo specchio attraverso la cavia del corpo; una densita’ di tempo eternamente coinvolta in diversi spazi. Il cinema di Stephen Dwoskin invece sboccia come un fiore malato dal dolore, lo affronta, lo guarda in faccia, non lo teme. Se qualcosa le sue pellicole ci hanno insegnato e’ proprio l’estrema voglia di non assecondarlo, di non fermarci mai a guardare la ferita, di non pensare di avere perso. Le loro immagini sono un’oasi di relativismo in cui solo l’affermazione stessa della volonta della vita può essere un principio ordinatore. Lehman lo sa e lo segue, lo gira, si ferma per poter capire il suo punto di vista osservandolo/ossrvandosi, le immagini dell’uno sono solo per l’altro. Nella sua villa (?) all’estrema periferia di Londra, il pensatoio non ha un tetto, e gli aerei da Heatrow declinano le giornate. Passate ad ingegnarsi su come salire le scale o meglio sul come riuscire a stare in piedi, anche solo un attimo, per vedere (!) come si sta in posizione eretta solo per il gusto del punto di vista. Ecco quello e’ il punto, ancora una volta, la vista; sul mondo, sui corpi, sulla carne, sul dolore, sul cinema. Doveva essere l’inizio di un film (sulla fine, probabilmente) e si ritrova ad essere una fine dell’inizio, di qualsiasi inizio. La morte di Dwoskin ha portato con sè una delle anime piu folli e pure che abbiano mai giocato con il cinema, ma la proposizione stessa del gioco invita continuamente ad un’infanzia (anche dell’arte appunto), ad un amore continuo che sorge nello specchio del rappresentarsi, del donarsi. Prima dell’inizio allora c’è la fine? Lehman perde Dwoskin, non potrà più giocare al cinema con lui, allora davanti alla macchina, poggia una foto di Stephen (con in mano la cinepresa) sui suoi due occhioni teneri quanto tristissimi. Stop! Anzi… Ciak, si gira! Che strano gioco (è la vita).

Erik Negro