Cary Fukunaga sbarca al Lido con l’importante curriculum di regista della prima capitale stagione di True Detective. Conoscere il suo talento rende quindi ancora più inspiegabile lo scivolone che risulta essere Beasts of No Nation, primo film in concorso a Venezia72 e primo pesante passo falso della Mostra. Il tragico tema dei bambini soldato viene trattato con una sufficienza a cavallo fra la retorica più spicciola e la tensione a scene di una violenza spettacolarizzata, gratuita ed asettica. Manca qualsivoglia sincerità o respiro vitale, mentre il film si trascina stancamente per più di due ore e un quarto rivelandosi nient’altro che un’operazione commerciale a tratti piuttosto bieca, confezionata su misura, a partire dall’inspiegabile inglese nel quale il film è stato girato, per il pubblico medio americano. L’intrattenimento vince a mani basse sul concetto e sull’umanità, mantenendo però costante una fastidiosa retorica piatta e banale, tipicamente hollywooodiana, che sa ammiccare allo spettatore di massa facendolo sentire partecipe, commosso e impegnato.
Eppure l’incipit era potenzialmente folgorante: bambini di un imprecisato paese africano giocano a palla, inquadrati attraverso una vecchia televisione ormai priva di schermo. Si tratta di un rottame, ma l’immaginario fanciullesco e la povertà sapranno trasformarla da un lato in un giocattolo, dall’altro in una fondamentale fonte di denaro. Ecco che quindi i bambini, per vendere il televisore rotto ad un soldato, si improvvisano attori dietro al buco che fu il tubo catodico, passando dalla danza al kung fu fino al 3D, con uno di loro che si infila dal retro ed esce sorridendo dallo schermo. Pensando ai suoi trascorsi HBO, risulta interessante come Fukunaga tratti la piattaforma che gli ha dato notorietà come un giocattolo rotto, rivelando forse una frecciata per la decisione del network di non affidare a lui la seconda -bruttina anche per la sua assenza- stagione di True Detective. Beasts of No Nation, invece, è prodotto dalla piattaforma web Netflix, rivelando fra le righe come Internet stia fagocitando la televisione esattamente come la televisione mangiò il Cinema, ma questa è un’altra storia.
Dopo una prima parte di innocenza fanciullesca giocata fra le risate per i rutti a tavola e ludici blocchi stradali, arriva dirompente la guerra civile, e Agu assiste alle brutali uccisioni del padre e del fratello per poi essere catturato e costretto, a soli nove anni, a diventare un bambino soldato sotto l’egida di uno spocchioso comandante interpretato da Idris Elba. Sin dal periodo di addestramento, si susseguono tutti i possibili cliché del caso, dalla paura all’uccisione del primo uomo, dai crimini di guerra all’innocenza ritrovata con una corsa finale verso il mare che vorrebbe tendere ai 400 Colpi di Truffaut, ma si avvicina piuttosto all’offensivo I Bambini Sanno di Veltroni. Fukunaga strizza continuamente l’occhio al pubblico, alternando esplosioni di violenza ai limiti del gratuito (l’esecuzione con il machete, la donna uccisa durante uno stupro solo perché gli ricorda la madre, un susseguirsi di sequenze filmate a mano che sembrano quasi fare il verso al già evitabile Salvate il Soldato Ryan, il ratto delle prostitute in città in seguito ad un colpo partito accidentalmente) ad apparentemente infiniti istanti di uno strazio che mai diventa empatico, ma risulta piuttosto appiattito da un buonismo sempliciotto, privo di un reale cuore alla base quanto ammiccante nel ricordare continuamente quanto la guerra sia brutta e rovini le persone. Fino al cartello finale, nel quale si ricorda espressamente e per iscritto che i bambini non devono fare i soldati.
Cary Fukunaga firma un prodotto che gronda, dalle pieghe narrative, un’infinità di problemi etici. È un film furbo, avido, teso alla cassetta quanto privo di reali ambizioni artistiche, umane o concettuali. Un film studiato a tavolino per concorrere agli Oscar, che si finge impegnato dimenticando che non basta l’argomento per fare il Cinema. Un film che vorrebbe essere duro, ma che non riesce mai ad essere un reale pugno nello stomaco, troppo impegnato a procedere in un impersonale accumulo delle tragedie narrate dalla voce off di Agu. Tratto dal libro omonimo di Uzodinma Iweala, Beasts of No Nation tralascia o quasi tutti gli intenti antropologici della fonte, limitandosi ad essere uno sterile pamphlet sull’infanzia violata, incapace di compiere una reale riflessione su una società di guerriglieri, politici corrotti, bambini poveri, radici e tradizioni che vengono calpestate ed estirpate. In questo senso, quello di Fukunaga è un film profondamente sbagliato, un’occasione perduta che non meriterebbe una vetrina importante come il Concorso veneziano. Ma che piacerà, e parecchio, all’elettorato democratico negli States.
Marco Romagna