«La vita è un caos». Specialmente nella lotta impari di un uomo solo contro il Potere cinico e pressoché assoluto del latifondismo, nell’aspra Danimarca di brughiera del 1755. Un potere a livello locale più forte forse anche di quello del re e del suo altrettanto disgustoso gabinetto di nobili che, come in un costante e inevitabile intrigo di palazzo, prendono le decisioni in sua vece senza nemmeno consultarlo oppure dicendogli solo la parte che vuole sentirsi dire, su cui il danese Nikolaj Arcel costruisce l’epopea suo nuovo Bastarden, western epico e atipicissimo nei suoi elementi melò, nelle sue istanze storico-politiche e nell’intrinseco romanzo di formazione esistenziale di un nutrito gruppo di personaggi complessi e ben strutturati, fatto di desideri, fallimenti, ossessioni, ricatti, minacce, torture e dolorosi compromessi, ma soprattutto della continua contrapposizione di una società nobile che dagli abissi della propria arrogante ignoranza e del proprio razzismo classista si è autoconferita la patente di civiltà, contro la wilderness più selvaggia, ma pulsante e ancora libera di amare, dei briganti, dei clan e delle terre desertificate da tentare di bonificare con il sudore della propria fronte fra una gelata improvvisa e un aperto sabotaggio. Liberamente tratto dal romanzo Kaptajnen og Ann Barbara di Ida Jessen, letteralmente poggiato sulle spalle e sui primi piani della recitazione minimale di un sempre più grande Mads Mikkelsen e presentato in concorso all’80ma Mostra di Venezia come prima vera sorpresa in positivo di una selezione finora avara di reali colpi al cuore, a Bastarden basta fantasticare intorno alla storia vera di Ludvig Kahlen, ex capitano dell’esercito di umilissime origini deciso a rendere fertili e coltivabili quelle terre dello Jutland che mai nessuno era riuscito a sottomettere alla civilizzazione dell’uomo, per avere in cambio quel titolo nobiliare con cui definitivamente suggellare la sua scalata sociale da sempre agognata e duramente inseguita. Un nato bastardo che ambisce per tutta la vita all’aristocrazia, e che una volta ottenutala pagandone l’altissimo prezzo fisico, mentale, morale ed emotivo non potrà che autonomamente decidere di rinunciarci per scegliere l’umanità dei bastardi (importante sfumatura concettuale che rischia di andare persa nel titolo scelto per la vendita internazionale, The promised land, usato come riferimento anche per l’italiano La terra promessa) in cui poter tornare a liberare la donna amata e a riprendere quella bambina nomade inizialmente ladruncola messa in fuga con il fucile, e invece progressivamente diventata vera e propria figlia a cui affezionarsi ogni giorni di più.
Convinto che la sua impresa sia impossibile e destinata all’ennesimo fallimento, l’ipocrita conciliabolo di aristocratici alla corte di Federico V che da sempre avrebbe voluto estendere il suo regno su altre terre coltivabili decide di concedere al capitano i necessari permessi per tentare di avviare una colonia, in cui chiamare a lavorare i braccianti tedeschi unici necessari partner commerciali di un Paese all’epoca particolarmente chiuso e retrivo. Ma al suo arrivo nel luogo dove fondare la sua “Casa del Re”, il protagonista non potrà fare a meno di scontrarsi con il ricchissimo e potentissimo possidente (e detentore dell’intero potere giudiziario sulla contea) Frederik Schinkel che perdendo le terre avrebbe inevitabilmente perso anche il proprio potere. Un uomo volgare e meschino quanto narcisista e prepotente, cattivo senza appello superbo al punto di premettere un ‘De’ al cognome (curioso come questo accada proprio in un film prodotto dalla Zentropa fondata da Lars ‘von’ Trier) per aggiungere ulteriore nobiltà al suo titolo ereditato dal padre, e cinico al punto di torturare a morte con l’acqua bollente un uomo come spettacolo di una festa, di liberare dal carcere i peggiori criminali per ordinare loro di uccidere uomini e animali del protagonista, o di lanciare dalla finestra una cameriera che aveva osato opporsi al suo ennesimo stupro. Un villain intoccabile e disposto a tutto per non perdere i suoi privilegi, che non esiterà ad alzare sempre più l’asticella della violenza pur di ostacolare l’impresa di Kahlen, in un film solido e avvincente che si muove agevolmente fra i campi lunghi sugli spazi sconfinati della brughiera e i close-up ravvicinatissimi con cui catturare tutta l’evoluzione sentimentale ed emotiva che si dipinge quasi impercettibilmente sul volto del personaggio interpretato da Mikkelsen e su quelli delle due donne – la figlia del re di Danimarca che possiede il suo cuore ma è promessa sposa proprio di Schinkel e la governante vedova che cerca e trova reciproco conforto nel suo corpo fino a scoprirsi famiglia – che si intrecciano nella sua vita e nell’emergere sempre meno represso dei suoi sentimenti. Fino allo spuntare delle prime patate da una terra che mai aveva dato frutto, e poi ancora oltre, a costo di innaffiarle con il sangue dei nemici.
Guarda espressamente dalle parti di Barry Lyndon Nikolaj Arcel nella sua messa in scena degli interni gentilizi di (de) Schinkel, con tanto di citazioni esplicite delle pose a gambe divaricate che Stanley Kubrick aveva a sua volta tratto dai quadri inglesi del Settecento. Eppure è ovviamente tutt’altro, il punto di Bastarden. Quello di ragionare sull’ambizione e sul desiderio, e su come non abbiano alcun senso senza appigli di umanità e di intimità, senza un reale appagamento dell’anima. Anche riuscire a coronare i sogni apparentemente più impossibili, superando qualsiasi ostacolo e inventandosi di volta in volta le necessarie contromisure per ogni avversità compreso avere contro il peggiore nemico possibile, non può che condurre inevitabilmente a una sconfitta, alla presa di coscienza dell’ennesimo fallimento, se una volta ottenuto ciò che tanto si agognava ci si accorge di non avere più nessuno con cui condividerlo né altre trepidazioni da esperire, e che una nomina a barone non vale nemmeno un briciolo quelle emozioni sacrificate per ottenerla. Il resto è, come si diceva, la lotta impari di un uomo contro il Potere, quello del latifondismo ma, come scoprirà a sue spese una volta abbandonato a (quasi) certa morte, anche quello dell’aristocrazia nella quale tanto brama(va) di essere ammesso e del re che per lungo tempo mai ha nemmeno conosciuto il nome di Ludvig Kahlen, fra sostanziali generazioni di lavoratori assunti e ogni singola volta in ogni modo scacciati dai suoi terreni e continui contratti (sempre meno) capestro da rifiutare sdegnosamente, scegliendo anche quando ormai senza più soldi né cibo l’integrità morale, la dignità e la (malriposta) fedeltà alla corona. In una serie di situazioni, di ricatti e di scelte in cui dovere (anche dolorosamente, come quando la xenofobia dei braccianti e la convinzione che la pelle scura della bambina portasse sfortuna lo costringono a farla rinchiudere in un istituto religioso, condizione imposta per non lasciarlo solo nell’assalto al maniero del villain) mediare fra i due mondi, quello della civiltà e quello dei bastardi, per raggiungere l’obiettivo di una vita nel primo e poi scegliere naturalmente e senza particolare esitazione il secondo, proprio come la materialità anaffettiva del sesso con la governante non potrà che deflagrare prima o poi in un bacio di passione, e nel rendersi conto di essere ormai legati da un sentimento più profondo e imprescindibile, nel quale nulla ha più senso se non ci si sveglia insieme. Poi sì, in una sceneggiatura così attenta alla caratterizzazione e alla tridimensionalità dei personaggi, e parallelamente a rimanere sempre in equilibrio fra i generi senza mai eccedere nel grandguignolesco western, nell’eccesso della ricostruzione storica o nel melenso del melodramma, suona come una nota un po’ stonata il finale sbrigativo e forse un po’ retorico, che taglia un po’ con l’accetta le ultime due sequenze, portandole a convergere nel punto (o meglio ancora nel luogo) più ovvio, tutti e tre di fronte a quel mare che da sempre volevano vedere. Ma non può essere un minimo dubbio sull’ultimissima tirata delle fila a sminuire un buonissimo film. Si può solo raccogliere da terra il tradizionale bastoncino, accettando definitivamente di entrare a fare parte del suo clan. Bastardi in un mondo di bastardi, e proprio per questo finalmente felici.
Marco Romagna