Non aveva alcuna pretesa di essere un “bel” film, Barbarella. Dalla produzione Dino De Laurentiis mirava a portare sullo schermo l’omonimo fumetto erotico-fantascientifico di Jean-Claude Forest spendendo il meno possibile, dalla cabina di regia Roger Vadim era interessato ben più alla spettacolarità, alla sorpresa e alla malizia che alla fluidità della narrazione e alla sostanza dei possibili riferimenti sociali, e a giudicare da quelle che sono state le dichiarazioni successive e le parole rimaste nelle autobiografie, nemmeno Jane Fonda, al tempo moglie del regista, era particolarmente a suo agio in un ruolo fatto di scarsa psicologia e di un’esposizione così sbarazzina e disinibita della sensualità. Tanto che, al tempo dell’uscita, il film fu pesantemente stroncato, andando incontro a un sostanziale flop sia di critica sia di pubblico. Ma nel corso degli anni, un po’ per lo striptease iniziale in assenza di gravità in cui i titoli di testa si muovono a coprire (non proprio tutte) le parti più proibite del corpo e per i costumi pruginosi indossati dalla Fonda, un po’ per l’ingresso a doppia mandata nella cultura pop (basti pensare ai Duran Duran che devono il loro nome al dottor Durant Durant cercato per le galassie dalla protagonista), un po’ per come la psichedelia dei disturbi elettronici in cui si inoltra la navicella spaziale e per come la sessualità aperta ed erotica ma mai torbida e perversa incarnano tutto lo spirito ribelle del ’68, Barbarella è diventato un assoluto cult, un documento storico, un mattone fondamentale dell’immaginario collettivo di più generazioni. Tanto da portare, nel 2014, Amazon studios a pianificare un’intera serie-remake ispirata al film di Vadim, bloccata però due anni dopo da Nicholas Winding Refn che la avrebbe dovuta dirigere dicendo che «alcune cose vanno lasciate così come sono». Ovvero, in questo caso, come riproposte dal Trieste Science+Fiction Festival 2018, in una proiezione che riporta a quei tempi, a quei colori, a quella vitalità, e non a un tentativo di ricostruirli.
Barbarella sarebbe dovuta essere Brigitte Bardot, la bomba bionda che Alfred Hitchcock definì “ha il sesso stampato in faccia” e che con le sue fattezze e le sue forme aveva direttamente ispirato il fumetto originale, ma B.B., stanca del suo costante impiego come icona sexy, aveva rifiutato. Come pure avevano nel frattempo declinato le offerte Sophia Loren, al tempo incinta e per tutta la carriera molto lontana da questo tipo di ruolo, e ancor prima Virna Lisi, che aveva preferito ritornare al cinema italiano. E fu così che in via Pontina a Roma, negli stabilimenti Dinocittà dove, in co-produzione Italia-Francia, venne girato il film, alla fine il volto destinato a spuntare nel casco spaziale e poi a vivere le avventure spaziali ed erotiche fu quello di Jane Fonda, a sua volta mai del tutto convinta dal progetto ma destinata a diventare un’icona.
Forse Roger Vadim non fu un grande regista, ma di certo, sposato prima con Brigitte Bardot, poi con Annette Strøyberg, poi appunto con Jane Fonda, poi con Catherine Schneider e infine con Marie-Christine Barrault, passando per relazioni e figli extraconiugali con Catherine Deneuve, fu un grandissimo amatore. Come pure, non è certo un segreto, fu un grandissimo amatore Ugo Tognazzi, e forse non è un caso che, nello scorrere di Barbarella, sia proprio il grande attore cremonese a far scoprire alla protagonista i piaceri del «fare l’amore» all’antica, come i selvaggi, sul letto, e non più con le pillole di trasferimento della libido con le quali, nell’immaginario 40mila dopo Cristo, ci si accoppierà «senza distrazioni» sulla terra. Nel futuro ipotetico di Barbarella, così legato a doppio filo con le rivoluzioni sessuali sessantottine, la moralità è un concetto totalmente differente da quello del presente, e nel concedersi della protagonista a chiunque le salvi la vita ci sono riconoscenza, progresso, seduzione, malizia, gioia, magari voglia di volare, ma mai reale perversione. Ed è così che Vadim si è divertito, pur limitando l’aperta nudità della moglie alla sequenza titoli iniziale e mostrando davvero solo un seno, a giocare di continui doppi sensi e di allusioni erotiche, fra astronavi rosa dall’apertura tonda e lunghissimi tubi da attraversare con tutto il corpo, fra antenne gonfiabili che si rizzano in cima alle vele e vestiti più volte stracciati da robot morsicanti o famelici uccelli tropicali, fra i costumi di Paco Rabanne con tanto di capezzoli in plastica e le videochiamate senza il tempo di rivestirsi. Senza dimenticare una sorta di amaca trasparente su cui far riposare Barbarella, inquadrandole dal basso le forme che si schiacciano contro la plastica.
Ci sono guardiani senza corpo e navicelle spaziali a cui sparare, ci sono batterie che rendono letali oppure inservibili le armi e tasti o leve di cristallo con cui ribaltare ogni visione e situazione, ci sono saturazioni forti e pigmentazioni elettriche, ci sono raggi laser che possono smaterializzare l’umanità e letti di paglia. Ci sono regni di ghiaccio, labirinti, bambini malvagi, ali, occhi nella notte, scenografie futuristiche e tubi aspiranti. E ci sono regine diaboliche salvate da angeli che sanno dimenticare. Certo, la narrazione non è all’altezza dell’intelligente, divertito e sottile uso dell’eros, in Barbarella. E lanciarsi in tentativi di lettura semiotici alla ricerca di significati al di sotto dei significanti e dell’industria sarebbe semplicemente folle. Dopo un incipit tutto sommato brillante, il film si fa episodico e senza particolari guizzi, fatto di personaggi caricaturali e non particolarmente profondi, incapace di sfruttare le tante possibili stratificazioni date da un fiume sotterraneo che si nutre della malvagità e della perversione degli uomini restituendo loro benessere e opulenza, incapace di ragionare sul senso della Resistenza e della Rivoluzione messe in atto contro la Regina nera, e in realtà nemmeno interessato a farlo. Barbarella voleva divertire, intrigare, trasportare, sedurre, ironizzare più sul nonsense che su effettivi spunti di riflessione. Eppure, quasi senza volerlo, o per lo meno senza cercarlo, si è trovato simbolo del Sessantotto, di quella freschezza, di quella libertà, di quella sfrenata passione. Di quell’immaginario di vesti lacerate e oggetti volanti, di chiavi invisibili e di trasparenti per permettere all’uomo di librarsi, di acque ribollenti e di viraggi di colore, di figure deformate dalle bolle e di retroproiezioni di cieli marezzati. Di voglia di rivederlo, ancora.
Marco Romagna