Io gioco, tu giochi, noi giochiamo… al cinema
Jean Luc Godard
Barbara (nome d’arte di Monique Andrée Serf) è una figura fragile, potente ma quasi astratta. La sua vocazione era perfetta, la chiarezza della sua voce pura, tenera, esile e immaginifica. Cantava l’amore perduto, le memorie vive, la fratellanza e la morte. Distantissima dalla Piaf ma vicina a quell’immagine di dea/diva quasi irraggiungibile. Amata, amatissima anche nelle sue linee dure, nelle sue forme tenebrose e scure, nei lineamenti ipnotici e scavati. Questo abbozzo di descrizione probabilmente è lo spazio in cui cresce l’ossessione di Yves Zand, il regista che decide di girare una personalissima dedica a Barbara, coinvolgendo l’attrice Brigitte in un complesso processo di mimetizzazione con la stessa cantante (dalla visione ripetuta di sue performance all’ascolto di nastri, dallo studio dei gesti fino all’approccio verso la parola). E così, mentre l’ossessione di Zand si fa sempre più concreta in questo tentativo di rievocare la figurina del proprio desiderio, il coinvolgimento di Brigitte si sfalda, la metamorfosi fatica a completarsi, e il film accennato si slabbra lasciando perdere le sue tracce: “È un film su di lei o su di te?” “È la stessa cosa, ormai”. La pellicola avrebbe voluto tentare di ricostruirle quelle tracce, come un diario di note casuali a partire dall’infanzia in tempo di guerra e dai travagliati rapporti con la madre, fino al dramma della morte di Jacques Brel e all’ansia del palco. A Zand non interessano le relazioni, le evocazioni che l’hanno portata a scrivere certe canzoni, a lui importa solo scoprirla nel profondo, possederla in uno stato analitico e passionale per cui ogni oggetto d’arredamento come ogni piccola smorfia potessero essere tasselli necessari di un puzzle multiforme. Tutto ciò forma quasi un diagramma, l’autore/attore (Amalric) che interpreta un altro autore (Zand) che fa interpretare a un altra attrice (Brigitte, ovvero Jeanne Balibar) un’autrice/attrice (Barbara).
Alla fine è la stessa Brigitte (o meglio Balibar) a scavare nel proprio passato e a metterlo in discussione, un passato di cui fa parte in un certo senso anche lo stesso Amalric. Il dispositivo, duplicato e replicato all’infinito, rimane come una camera di specchi in tutti i suoi “potrebbe essere”, anche la stessa espressione del sogno. La spina dorsale del film è l’ossessione stessa di Amalric metaforizzata nello scambio di voci delle due donne (amanti) che man mano si somigliano sempre più fino al senso stesso del rigetto incomunicabile. Il film non esiste più, forse nemmeno quello che stiamo guardando. Il gioco molteplice e vertiginoso delle parti, evidente fin dallo sdoppiamento/scivolamento dei titoli di apertura in cui i nomi di Balibar e Barbara si fondono, torna al singolo e all’unità nel momento in cui essi giungono al culmine di un esperienza immersiva che va ben oltre la messa in scena. Anche perché nel complessivo esercizio di mimesi continua è proprio l’autore (il demiurgo, colui che genera) a mettersi a nudo, a costruire uno spazio e una macchina perfetti per definire non solo l’ossessione per la peculiare leggerezza, la tristezza fluttuante e la poetica tenerezza della cantante, ma le sue stesse di anima e di attore. Il protagonista vero di questo film pare dunque essere uno spazio-altro, quello invisibile che sta tra la scena ed il pubblico, tra il set e la macchina da presa, tra l’esserci e l’esserci stati. E proprio per questo il primo a far perdere le tracce del/i film e di se stesso non può che essere proprio Amalric.
C’era una volta la macchina cinema e probabilmente c’è ancora. Nei suoi tre principali film da regista (Tournee, La Chambre Bleu e questo Barbara) l’attore francese lavora proprio su questo, tra la teoria più implicita e la pratica dei propri sentimenti. E il suo cinema è un continuo atto d’amore verso le molteplici possibilità che offre il poter mettersi in scena, il traslare anime e volti, voci e obiettivi, teatri e stacchi di montaggio. Il senso materico stretto di questa fusione a caldo di personaggi e storie ne è la sua essenza più pura e incontrollabile, ed è la sintassi più viva possibile per l’esperienza di un set che lascia tutti i protagonisti (e probabilmente anche coloro dietro alla macchina) fluttuare alla deriva di queste tre scatole magiche che il film racconta derivandone infinite altre. In una società per immagini così famelica come quella odierna, che produce spettacolo quasi per il subdolo motivo di esserne apparentemente fagocitata dallo stesso, Barbara si impone come una delle resistenze possibili, proprio come lei stessa si impose in un altro tipo di società. Nella liminale mimetizzazione di ciò che guardiamo c’è anche una postilla finale, il nostro essere autori della parte che dobbiamo per forza rappresentare, essendo sempre coscienti che il nostro ruolo sul set del gran teatro del mondo nulla potrà fare con la catarsi dell’ossessione, dello spazio inspiegabile e puro del gioco. Anche se questo gioco vive nel dramma, nella distanza e nell’impossibilità, solo lui oggi può invitarci ad andare avanti. Tutto così rimane in sospeso, dei film nessuna traccia, solo una presenza che evapora in bianco e nero corrosa dalla grana, schizzi di diari e lontananza che corre nomade lungo la strada. L’amore per lei, il protagonismo di lui: il ruolo dell’artista. Che strano gioco è il cinema, che strano gioco è la vita.
Erik Negro