Katsuya Tomita, membro del collettivo Kuzoku, a sentirne parlare, potrebbe essere tra i registi giapponesi più interessanti dell’ambiente contemporaneo, in un’epoca in cui Sion Sono aumenta la produttività sbagliando più colpi del solito, in cui Takeshi Kitano fa film nostalgici o senili e lo Studio Ghibli affida le proprie nuove produzioni a registi europei. Infatti, Tomita è un camionista e un regista autodidatta (come gli altri membri del collettivo Kuzoku), che con il regolare stipendio compra la pellicola per i suoi film, che spesso sono lunghi, prolissi, dilatati: un esempio può essere la commedia Saudade, proiettata a Locarno nel 2011, che nelle sue tre ore scarse raccontava una storia di alienazione marxista e hip hop in una cittadina giapponese. Bangkok Nites anch’esso dura tre orette, e dalle immagini viste in Piazza Grande la prima sera del festival, per pubblicizzare il concorso prima della proiezione del blockbuster a tema zombie The girl with all the gifts, si sperava bene: una ripresa fatta da un drone che inquadra una gang di giapponesi che camminano a ritmo di beat rap per una giungla, finendo in un ampio campo ricoperto di buche, mentre in sottofondo rimbombano i fischi di bombe che cadono ma non si vedono. Immaginando un’epopea che coniughi la cultura e la Storia nipponica con la cultura hip hop, un po’ come fece Sion Sono con Tokyo Tribe (2014), ma magari con meno postmodernismo delirante e più cognizione di causa, siamo arrivati in sala stupiti, sia in positivo sia in negativo. Senza dubbio, non ci siamo trovati di fronte ad un film genuinamente divertente né ad un’opera pop epocale (come possono essere i film del più volte citato e citabile Sion Sono), nonostante vari momenti in cui un’ironia tipicamente giapponese viene fuori, tra comiche occidentalizzazioni e ralenti fuori luogo.
Il film, giapponese per produzione e cast ma girato interamente in Thailandia, paese di cui non finisce mai di commentare la geografia e la cultura, gira intorno alla bellissima Luck, la “numero 1” tra le prostitute di un’agenzia-bordello di Bangkok frequentata prevalentemente da giapponesi, che al lavoro incontra un vecchio cliente, Ozawa, anch’egli giapponese, con il quale v’era una sorta di storia d’amore finita male. L’innamoramento però ricomincia da zero, tra viaggi verso il Laos e verso i campi fino a ritorni nel caos di Bangkok. Il film è facilmente scindibile in tre parti, di all’incirca un’ora l’una: la prima è immersa in uno sguardo quasi corale sulle varie parti della vita di Luck a Bangkok, dalle vetrine volgari delle prostitute agli yakuza che si siedono in cerchio a fumare crack (e tutto ciò mostrando raramente il marciume di questa vita, sia evitando il sesso sia la violenza, quasi a voler dare volontariamente una visione superficiale che mette da parte la visione critica sostituendola ad uno sguardo più plastico); la seconda è sulla lenta e rilassata quotidianità delle campagne in cui abita la famiglia di Luck; la terza è un andirivieni tra una trama e l’altra, tra un personaggio e l’altro, ricreando gli spazi della campagna e della città, e poi del mare, con una visione a tutto tondo che ha picchi emotivi notevoli, ad esempio in una scena sulla spiaggia che presenta solo una lunga interazione tra i due personaggi. La visione altmaniana che prevale nella prima parte del film cattura l’attenzione, mischiando la critica sociale (un po’ moralista) a interazioni umane, frullando pop e industrializzazione, luci artificiali e soap opera. Tuttavia, già qui si sente il peso di lungaggini strascicate; forse perché è da poco che qui a Locarno, nel concorso Cineasti del Presente, abbiamo visto un film lento, il bellissimo El auge del humano di Eduardo Williams, che anch’esso era sostanzialmente diviso in tre sezioni (in maniera molto più esplicita) ma riusciva a riassumere tutto in poco più di un’ora e mezza. Quando l’attenzione comincia a scemare, tuttavia, giunge un’interessante svolta stilistica con il passaggio dalla prima alla seconda parte: il cambio geografico corrisponde ad un cambio registico, stilistico, cinematografico. Si passa dunque da uno stile convenzionale (anche se non necessariamente giapponese in senso tradizionale, anzi: è più un approccio quasi hollywoodiano, se non fosse per le ritualità (dia)logiche asiatiche a cui noi occidentali possiamo non essere completamente abituati) ad una specie di cinema di riflessione e lentezza, vicino dunque al cinema thailandese di punta, quello dell’Apichatpong Weerasethakul di Tropical Malady (2004) e Cemetery of splendour (2015). Si discute la ricerca di un’identità (inter?)nazionale, in un flusso senza conclusione di inadeguatezze sociali e post-modernismo asciutto in questo mondo asiatico a tutto tondo, mezzo incontaminato e mezzo postmoderno, capitalista, caotico. Qui, però, regnano soprattutto la lentezza devastante e la bellezza visiva, l’immagine fissa, l’intimismo; l’occidentalizzazione non è più una scenografia ma una comparsa, come un francese ubriaco che insulta Luck in un bar facendo commenti superficiali sul colonialismo. Ci sono tuttavia vari tocchi di manierismo delirante che non possono che far sorridere per la loro ingenuità quasi imbarazzante, compresa una breve scena al rallentatore in cui, mentre in sottofondo risuona una canzone pop thai, Ozawa e dei parenti di Luck ballano per strada felici per aver comprato della marijuana.
A questo punto, la terza parte del film deve unire le prime due, con tutte le sue sottotrame, tutti i suoi personaggi, tutti i suoi sottotesti e tutti i suoi ritmi. Ma è incredibile come ogni aspettativa venga sconfitta: la perdita di speranza per una struttura sensata scompare appena si vede la scena che abbiamo visto in piazza il primo giorno del festival, seguita da un potentissimo dialogo sull’effimerità della Storia e sulla libertà della vita criminale nel contesto della Thailandia presa dagli yakuza; ma poi ricominciano le lungaggini, con pochi barlumi di bellezza formale e contenutistica nella succitata scena sulla spiaggia e in una breve sequenza in night-club in cui un gangster parla della Thailandia come del Paradiso, per come si coniugano traffico di droga, globalizzazione culturale, violenza e sesso. Con la successione di una quantità eccessiva di finali incoerenti l’uno sopra l’altro, il filo del film si perde definitivamente — al punto che per me è difficile ricordare l’intera struttura di questa macro-trama piena di particolari, storia atta a dire tutto ma incapace forse di dire niente. La prolissità di Tomita è perdonabilissima di fronte alla sua maniera di fare cinema (la sua regia è ben calibrata, mai fuori luogo, sempre puntuale) e alle varie intuizioni emotivo-visive qua e là; ma il film piomba nella piena indifferenza con i titoli di coda, che “svelano l’illusione del cinema” ricalcando in maniera irritante e quasi parodistica le conclusioni di Educação sentimental (2013) di Bressane e di Cosmos (2015) di Żuławski, capolavori visti a Locarno che al metacinema davano davvero un qualche significato, un qualche colore, una qualche filosofia. Tomita il grande cinema sembra poterlo fare, ma le difficoltà nel calibrare la quantità di quello che c’è da dire con le possibilità su come dirle rendono Bangkok Nites una visione piena di potenzialità sprecate, di domande irrisolte, di momenti tra i più sublimi, osceni e strani del concorso locarnese 2016.
Nicola Settis