6 Aprile 2016 -

BALLAD IN BLOOD (2016)
di Ruggero Deodato

Sul finale di Cannibal Holocaust, capolavoro del 1980 diretto da Ruggero Deodato e primo esempio di found footage, ci si chiedeva quali fossero i veri cannibali. L’invettiva era diretta non certo agli indigeni dell’Amazzonia e alle loro pur discutibili pratiche culinarie, ma piuttosto al potere invasivo della stampa e a una società dominata dal caos e dall’arrivismo, nella quale l’uomo sceglie deliberatamente di fagocitare i propri simili pur di affermarsi, o di fare share in televisione. Oggi da quel film cult sono passati 36 anni, ma la pulsante lucidità di Deodato nel mettere alla berlina le storture sociali attraverso il cinema di genere non si è mai affievolita. Né tantomeno il gusto per lo scandalo, per una provocazione mai gratuita, per una violenza che si è fatta sì meno splatter rispetto ai cannibal, ma forse ancor più devastante nella propria irruenza psicologica. Del resto, il regista si è sempre dichiarato un rosselliniano di ferro, interessato alla realtà come anima intrinseca dei propri film di genere (è lui stesso, durante la discussione al termine della proiezione, a rifiutare la dicitura “horror” trovandola imbastardita da troppi anni di cinema “privo di sostanza”) e non a caso spesso imbeccato da fatti di cronaca nella stesura delle proprie sceneggiature.
Frutto di una scrittura durata più di tre anni alla ricerca di finanziamenti, è stato presentato in anteprima mondiale al Lucca Film Festival 2016 Ballad in Blood, ritorno di Deodato dietro alla macchina da presa dopo oltre vent’anni (non prendiamo in considerazione le regie televisive da lui stesso disconosciute perché fatte esclusivamente per mangiare, da I ragazzi del Muretto a Incantesimo) che prende le mosse dai fatti di Perugia e dall’omicidio Meredith per correre a perdifiato sul filo al confine fra crudeltà, rimorso e allucinazione, e puntare apertamente ma con la dovuta ironia il dito contro una generazione Erasmus incapace di fare reale frutto dell’esperienza all’estero, o ancor più prosaicamente di leggere i giornali e informarsi su ciò che accade nel mondo, preferendo piuttosto lanciarsi nell’abuso di droghe e nei giochi erotici più spinti. Il che poi è grossomodo quello che aveva fatto Eli Roth nel suo The Green Inferno (2013), dichiarato omaggio al regista potenzino pronto a mandare i falsi rivoluzionari ambientalisti con i soldi di papà direttamente nelle pentole di quella stessa popolazione che avrebbero voluto “salvare”. Ed è splendido notare, a livello squisitamente metacinematografico, come Deodato abbia ricambiato l’omaggio del regista della scuderia di Tarantino, interpretando come cameo in una sequenza fra le più spassose di Ballad in Blood il professor Roth, portato via in carrozzella dagli studenti per saltare una sessione d’esame.

Quello di Meredith, seppur con un presunto colpevole ancora in carcere, è uno dei tanti casi italiani ancora di fatto insoluti, nel quale le verità processuali dei vari gradi di giudizio si annullano a vicenda, si rivelano discordanti e incompatibili. L’ivoriano Rudy Guede è stato condannato con rito abbreviato per concorso in omicidio, ma i presunti concorrenti Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono invece stati assolti per insufficienza di prove dopo lunghi anni di condanne, assoluzioni con formula piena, ricorsi e nuove condanne. Si tratta di un caso di cronaca nera sul quale probabilmente non si riuscirà mai a fare piena luce, tante sono le incongruenze fra le testimonianze, tante sono le pecche nei rilievi della polizia scientifica, tanta e tanto scomoda è stata la pressione mediatica internazionale. Fra le ipotesi dei colpevolisti e degli innocentisti, Deodato sceglie una terza via, quella della finzione più pura, quella del viaggio allucinato e bipolare nella colpa e nella paura di essere scoperti, quella del gioco con la morte e con il sangue, quella del thriller che da un lato prende le mosse dalla condanna nel primo grado di giudizio (Amanda, Raffaele e Rudy colpevoli di un gioco erotico finito in tragedia), dall’altro cambia loro i nomi, la casa, la città (il film è stato girato a Orvieto) e le situazioni alla ricerca, nell’impossibilità di trovare una verità, quantomeno di una giustizia. Quando il sangue chiama altro sangue, il nonsense della realtà chiama altro nonsense, stavolta cinematografico, per dare un minimo di ordine al caos.
Con una potenza immaginifica oppressiva e in un costante climax di tensione, il nuovo lavoro di Deodato mette in scena una dicotomia allucinata fra sesso e morte in una spirale di droghe, colpa e terrore: i giovani dissoluti, un cadavere in casa, le menti annebbiate, la necessità di liberarsi del corpo e al contempo quella di ricostruire gli avvenimenti. Accade tutto in poche ore, nel film di Deodato, nella mattina successiva all’omicidio, e i riferimenti al caso Meredith sono abbastanza palesi: le studentesse straniere, interpretate dalle esordienti e sorprendenti Noemi Smorra e Carlotta Morelli, meravigliosamente magnetica nel ruolo di una femme fatale manipolatrice, strafatta e folle ma anche, a suo modo, innamorata; un ragazzo italiano e uno di colore, proiezioni cinematografiche di Sollecito e Guede fra crack, mdma, cocaina, hashish e violenza urbana; la festa di Halloween e ciò che è successo nelle ore successive come un drammatico vuoto da ricostruire fra le droghe che si diradano ma vengono nuovamente assunte; il risveglio della mattina fra vetri rotti e corpi nudi insanguinati, fra sesso, vomito e bottiglie di birra; il ritrovamento del cellulare (anche se quelli della studentessa inglese erano due, e non rimasti ad un’amica ma gettati in un fosso); fino al misterioso barista interpretato da un Ernesto Mahieux che ricalca un ruolo forse ancora più cinico e spietato di quello che ebbe con Matteo Garrone ne L’Imbalsamatore (2002).

Ballad in Blood, attraverso l’immaginario geniale e squisitamente low budget dell’autore, mescola il vuoto cosmico dei giovani e della loro carne secondo il Korine di Spring Breakers con il cazzeggio più sfacciato degli youtuber, fino a inventare liberamente e divertirsi, fra un annegamento nella vasca da bagno che diventa improvvisamente un gioco fra amici strafatti e un coltello che viene seguito minaccioso mentre passa vicino alle gole dei protagonisti salvo poi affondare placidamente in un salame. Forte di una commistione slabbrata fra tensione e ironia, il film declina nelle forme del thriller riflessioni non banali sulla natura bipolare dell’uomo, su come la violenza domestica possa superare di gran lunga quella urbana (splendido, in questo senso, il finale con la gang che arriva per vendicarsi e si ritrova dinanzi a un’apocalisse già avvenuta), su come a volte i casi insoluti siano purtroppo destinati a rimanere tali, sul confine fra gioco erotico e stupro, sulla portata simbolica della maschera, sul potere dei corpi e sulla loro stessa natura perversa di dominio e manipolazione, ma soprattutto su una sorta di psicologia inversa a cavallo fra la consapevolezza di essere colpevoli e la difficoltà nel far riemergere quel che è successo ed è già stato rimosso. Attraverso, ovviamente, il found footage.
Ma forse, non ha neanche troppo senso concentrarsi troppo sugli aspetti concettuali di questo film, costruito piuttosto per mettere in scena i giovani in una spirale che agonizza paranoia, e al contempo capace di divertire sinceramente lo spettatore, in testa la sequenza nella quale una vecchia viene erroneamente uccisa al posto di una possibile testimone con il dialogo splendidamente pulp che ne segue, ma anche quella nella quale un topo si infila nei sacchi insieme al corpo, dando l’illusione terrorizzante di un movimento impossibile ai protagonisti ridicolmente urlanti. Deodato procede, come genere richiede, per accumulo, accatastando da una parte l’ossessione per filmarsi, i giochi erotici (ovviamente anche saffici) di studenti e studentesse, le dimensioni del membro fra chimica e razzismo, l’uccidersi a vicenda, la reale disperazione di chi ha perso tutto, la forza che scaturisce da un segreto terribile, le droghe come causa e apparente soluzione dei mali, il sesso e la nudità come simbolo di perversione. Ma opta dall’altra parte per uno stile asciutto, con pochi fronzoli, analessi che si innestano nella narrazione senza intaccarne la diacronia e tanta lucida follia creativa, che trova una propria forza nei pochi mezzi (location e ciak ridotti all’osso) e ancor più nelle musiche originali di Claudio Simonetti, già leader dei Goblin e non certo nuovo al cinema italiano. Ballad in Blood viaggia fra il terrore del presente e la nebbia delle analessi, trascinando lo spettatore in un asfissiante nodo alla gola sospeso fra la paura di essere scoperti, la necessità di capire e la paura di se stessi. Ma quello che regna, sembra dirci il regista, è sempre e solo il caos, è sempre l’apocalisse, è sempre il dolore. Ruggero Deodato torna finalmente a fare un film “di Ruggero Deodato”, un film di genere che sa parlare della realtà a costo di stravolgerla, un divertente quanto straniante film dal respiro internazionale che si rivela un disperato grido di giustizia nei confronti non solo del caso di Perugia, ma di tutti i troppi gialli insoluti, dei quali tutti noi ci nutriamo voracemente. Perché da Cannibal Holocaust saranno anche passati 36 anni, ma i veri cannibali, oggi come allora, siamo ancora noi. Grazie, Maestro!

Marco Romagna

“Ballad in Blood” (2016)
Horror | Italy
Regista Ruggero Deodato
Sceneggiatori Ruggero Deodato, Jacopo Mazzuoli, Angelo Orlando
Attori principali Gabriele Rossi, Carlotta Morelli, Ernesto Mahieux, Noemi Smorra
IMDb Rating N/A

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