“E’ la lingua a fare l’Impero”
Kidlat Tahimik
Kidlat Tahimik è considerato il padre del Cinema Indipendente filippino e il portatore del Terzo Cinema (il cinema avanguardistico/sperimentale sudamericano) nel suo Paese. E la sua ultima opera, dal titolo lungo e impossibile da memorizzare Balikbayan #1: Memories of Overdevelopement Redux III, è tra i film più importanti dell’anno e del cinema filippino tutto. Il panorama del cinema del Paese asiatico è tendenzialmente sperimentale, e questo ormai l’abbiamo imparato, ma oltre ad essere ciò è anche un cinema profondamente storiografico, che fa riferimento alla propria Storia. E anche questo lo sappiamo, grazie a opere illustri come Autohystoria (2007) di Raya Martin o Norte: the end of history (2013) di Lav Diaz, che riprendono in particolare eventi tragici relativi ad eventi recenti o relativamente recenti, come la morte dei fratelli Bonifacio, figure martiriche chiave per la fine dell’800 e il cui lutto è ancora importante per comprendere la natura profondamente anticolonialista del paese e del cinema militante filippino in generale. Balikbayan #1 invece torna ancora più indietro, trattando (da lontano e da vicino) la storia di Enrique, il servo filippino di Magellano. Anche solo descrivere la genesi stessa del film è complicato: negli anni ’80, Tahimik ha girato in super 8 un film sulla vita di Enrique, un dramma storico colorato e ironico che parte dalla vita di Enrique nelle Filippine e si conclude con il suo ritorno dopo la morte di Magellano. Enrique è stato, forse, il primo a circumnavigare il globo, ancora prima di Magellano, perché è andato dal suo padrone partendo dalle Filippine e poi l’ha seguito nel suo viaggio nella direzione opposta, tornando dunque a casa. La sua storia è densa e divertente, con tanto di storia pseudo-sentimentale con una principessa spagnola, inventata di sana pianta ma messa in scena con un senso dell’umorismo vicino allo slapstick; Tahimik sceneggia, dirige e interpreta il protagonista di questa storia, affidando il ruolo di Magellano ad un attore estone. Poi, seppellisce la pellicola e per più di 30 anni non recupera il girato. Nel 2013, dissotterra le bobina e le revisiona, concludendo la storia in maniera assolutamente non convenzionale, ovvero cominciando una nuova vicenda, una storia che non è Storia ma finzione pura, e in questo senso è commento sul passato. Comincia dunque la narrazione di un artista occidentale, per la precisione spagnolo, che lavora nelle Filippine con scultori e fotografi vari, e che un giorno sulla spiaggia incontra un uomo, interpretato da un Tahimik ormai ultrasettantenne dai capelli lunghi e dallo sguardo contemplativo, che sviene. Lo aiuta a rimettersi in piedi, gli dà dell’acqua, e poi lo vede ovunque, persino nelle fotografie a doppia esposizione che scatta, e quindi si sente in dovere di andare a cercarlo. I ruoli si sono invertiti, il colonialismo è opposto ma non perché le Filippine abbiano conquistato l’Occidente, bensì perché ormai il colonialismo è qualcosa di universale, c’è proprio il colonialismo dell’arte che contamina gli animi e le identità geografiche, il linguaggio. Tahimik è diventato Ferdinando e l’artista spagnolo è Enrique. La narrazione dell’Enrique e del Ferdinando “di prima” e quella di quelli “di ora” si intrecciano in un montaggio sovversivo in cui il tempo smette di avere senso, passato e presente diventano identificabili solo per motivi di formato video ma prendono tutto sommato lo stesso spazio nel Cinema, lo stesso spazio nella visione.
Alla fine di questa narrazione, però, Tahimik non vuole concludere il film, non vuole concludere il sogno e il desiderio, e lascia allo spettatore un altro pezzo di visione, forse più importante, “il montaggio del regista”, in cui un montaggio tutto sommato puerile e scherzoso mostra la vita di Tahimik in più fasi: rapporto con la madre e con la famiglia, col figlio di nome Enrique, con il suo mestiere principale di intagliatore (proprio come Enrique! — è praticamente un delirio autobiografico, un chiodo nel tempo e nella propria vita). Il suo viaggio per colonizzare il mondo con l’arte e con la natura, piantando alberi in giro per il mondo, portando busti intagliati di Indiani d’America (simbolo del colonialismo, del resto). Immagini, frasi, mondi che incantano e che si incontrano in uno spazio indefinito, senza Storia eppure così pieno di Storia, di anima, di unità d’intenti — uomini liberi che cercano la libertà e la trovano unendo i loro linguaggi, in una sorta di osmosi spirituale definitiva che solo il Cinema riesce a raggiungere. In questo montaggio incredibile spunta pure Werner Herzog: Tahimik interpretava Hombrecito in una breve scena del capolavoro L’enigma di Kaspar Hauser (1975), e si può vedere nel making of l’autore teutonico dire all’autore filippino che non potrà mai essere un grande regista bavarese. La scena è ripetuta più e più volte; il mondo del film si è ormai compiuto andando nella direzione di un’esplicazione di libertà d’espressione cinematografica assoluta, in cui non è la bellezza a crearsi ma l’immagine, nella sua sincerità privata di artifici, nel suo globo. Sì, è un film-mondo, un film-viaggio — lo spettatore, forse, è come un novello Magellano o meglio un novello Enrique che viaggia attraverso questa visione a tutto tondo/a tutta sfera e naviga, impara, conosce. Lo spettatore come turista della libertà dell’anima dell’immagine, lo spettatore come protagonista di una circumnavigazione dell’occhio, di un rapporto pellicola-digitale, Storia-storia, presente-futuro.
Nicola Settis