6 Febbraio 2025 -

BALENTES (2024)
di Giovanni Columbu

Al posto dei graffi “vivi” tipici dello stile di Simone Massi ci sono i chiaroscuri fisici e abbozzati di contorni polverosi e macchie impressioniste, nelle pennellate su carta ricalcate al rotoscopio con cui Giovanni Columbu torna, sette anni dopo Surbiles, a realizzare un lungometraggio. Eppure sembra essere evidente un filo che lega questo bellissimo Balentes, opera quarta in quasi un quarto di secolo di carriera e prima sortita nell’animazione del regista, fotografo, architetto, scultore e pittore nuorese, allo straordinario Invelle con cui poco più di un anno fa l’artista marchigiano raccontava l’intero Novecento attraverso tre generazioni della sua famiglia. Non solo per le scelte stilistiche, differenti ed entrambe personalissime ma allo stesso modo capaci, nei loro disegni in bianco e nero, di calamitare lo spettatore in un fascino materico e ancestrale, ma anche e soprattutto per il racconto personale che da orale e familiare si fa archetipico e universale, per il punto di vista geografico, umano e culturale dei luoghi più sperduti, per l’utilizzo sin dai titoli delle lingue locali (magari mixate in una babele di parole o in un brusio musicale in cui smarrirsi) e dei linguaggi pittorici e cinematografici. Per l’assoluta centralità della realtà e della Storia, con i suoi effetti su ciò che è stato e su ciò che sarà. Una Storia che può essere quella che si studia sui libri oppure quella, più “piccola” ma non meno importante, raccontata direttamente al regista da una nonna che nel 1940 pre-bellico ne è stata involontariamente testimone, chiamata in quanto maestra del paese a identificare il corpo di un suo giovanissimo studente caduto sotto i colpi di fucile della milizia rurale. “Colpevole”, per puro idealismo (o per meglio dire per pura balentia, parola sarda che indica forza, valore, abilità, coraggio, lo spirito d’avventura nobile e cavalleresco con cui il popolo isolano resiste a ogni asperità della vita e della propria terra, e che il titolo del film rideclina sostanzialmente in “Valenti”), di avere rubato insieme a un amico una mandria di cavalli per liberarli prima che venissero mandati a morire in guerra, ma tradito da un ladro che, evitando accuratamente di dichiarare alle autorità fasciste come i due avessero solo 11 e 14 anni, fece loro tendere l’agguato mortale.

Trovando ancora una volta il punto di innesco del suo cinema nella tradizione orale del cuore più profondo della Sardegna premoderna, Giovanni Columbu affianca al racconto della nonna quelli di altri (veri? immaginari? possibili) testimoni trasformando la vicenda dei due ‘coraggiosi’ Balentes in un racconto a più voci, da qualche parte fra la romanza popolare e l’epica classica, o se si preferisce da qualche parte fra il cinema e la pittura, per poi fotografare, filmare e infine dipingere personalmente le tavole fra iridi e pulviscoli, moltiplicazioni e suggestioni, contorni al carboncino e spesse pennellate di figure nel bianco e nel nero. Un po’ come se la storia cupa ed eroica dei due ragazzini caduti nell’imboscata, che poi è già intrinsecamente la cupa storia di un intero Paese caduto nell’imboscata del fascismo e che stava per entrare nella Seconda Guerra Mondiale, ed è già intrinsecamente la storia eroica di un’intera cultura atavica e primigenia fra donne attitadoras velate che piangono e allevatori in marcia sugli sterminati altipiani, fosse anche la storia del cinema e in generale dell’immagine, fra i cartelli in sardo come segni di interpunzione che ritornano agli intertitoli del cinema muto e i dettagli del treno che riportano a La Roue di Abel Gance, fra i cavalli in loop come nel fucile fotografico di Muybridge e i litigi fra gli uomini che riportano allo scherzo e alle sculacciate de L’innaffiatore annaffiato dei fratelli Lumiére, passando per paesaggi brulli, animali, miliziani e squadristi che sembrano fissati in vecchi dagherrotipi all’albumina, uccellini in silhouette che sembrano usciti da un’illustrazione giapponese, figure abbozzate come primigenie pitture rupestri e poi in negativo come gesso alla lavagna, e infine le ombre, le luci, le improvvise tempeste di sabbia, e il Vampyr di Dreyer che riemerge nella musica e nella morte del giovanissimo Ventura. Una morte che, a ben vedere, è ancora una volta il sacrificio di un Su Re Gesù sardo, una parabola per molti versi cristologica di espiazione e martirio con cui tentare di liberare il mondo, o per lo meno una mandria di animali, dall’orrore della guerra, dalle ingiustizie, dalle oppressioni, dal dolore di una quotidianità lancinante. Da una sostanziale condanna a morte violenta e dolorosa, che in realtà era quella di tutta l’Italia tenuta sotto il calcagno della dittatura, era quella di tutta un’Europa in guerra, era quella di tutta una fase storica che, tristemente, non sembra più così lontana.

Basterebbero forse i paesani che, non capendo le intenzioni dei ragazzi, li identificano come «senza testa sulle spalle», pensando al loro atto semplicemente come a una bravata, o al massimo come a un furto per necessità. Eppure, a differenza del loro amico che non parteciperà all’azione, ma che metterà loro la pulce nell’orecchio parlando di come il padre abbia dovuto vendere i propri cavalli all’esercito per pagargli gli studi, i due protagonisti di Balentes non sembrano avere problemi economici di alcun tipo. Il loro atto di coraggio è semplicemente figlio di un eroismo poetico e naïf, utopista, visionario, che il film fa proprio nel narrarli nel suo altrettanto coraggioso, altrettanto lirico e altrettanto visionario mosaico di stili animati, e nel suo prodigioso tappeto di suoni, rumori, voci, passi, crepitii, spari e musiche noise straordinariamente ipnotiche e realistiche, così perfettamente complementari all’impressionismo suggestivo e pittorico delle immagini (im)possibili, dei contrasti, delle trasparenze, della fluidità dei movimenti più e meno dinamici di figure a cui non serve un volto, perché il loro volto siamo tutti noi. E poi delle linee, dei cerchi, delle forme ora stilizzate e ora definite. Dei corpi che emergono dal buio come in un prisma di ricordi e di sogni, o forse semplicemente di storie che, dai loro apparenti margini caliginosi e indistinti, contribuiscono a fare la Storia di una famiglia, di un paese, di un’isola, di un popolo, dell’Italia, dell’Europa, forse dell’intero mondo. Elementi cardine di un film, presentato nella multiforme sezione Harbour dell’International Film Festival Rotterdam dopo il primo passaggio in Alice nella Città all’ultima Festa del Cinema di Roma, che testimonia ancora una volta e pure nell’animazione lo straordinario stato di salute che sta vivendo negli ultimi anni il cinema sardo, con Giovanni Columbu intento a passarsi di volta in volta il testimone con Bonifacio Angius e Salvatore Mereu in una piccola Nouvelle Vague isolana fatta di identità e di inquietudine, di antico e di moderno, di malinconia e di orgogliosa appartenenza a una cultura primigenia e proprio per questo così pura e ancestrale. Un cinema che si identifica nel territorio da cui nasce e che si immerge fino alle sue radici più mistiche e profonde, arroccate, tradizionali, magiche, immutabili come gli spiriti. A salvare dall’oblio una memoria familiare, custode di un’intera civiltà, che sarebbe altrimenti andata perduta, e (letteralmente) con le proprie mani consegnarla all’eterno.

Marco Romagna

“Balentes” (2024)
70 min | Animation, Drama | Italy / Germany
Regista Giovanni Columbu
Sceneggiatori Giovanni Columbu
Attori principali N/A
IMDb Rating N/A

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