BAIT (2019), di Mark Jenkin
Ristrutturare un cinema scomparso, sparito, evanescente. Nell’idea di Mark Jenkin probabilmente c’era proprio questo, tornare concettualmente a un rapporto tra immagini e sguardo in un impianto narrativo. Bait è in questo un film anomalo, scostante, alieno, girato in Bolex 16mm (con pellicola tiratissima) in un bianco e nero ultra-contrastato, abbagliante e allo stesso tempo cupo, per rimanere sospeso fra il realismo sociale di stampo britannico e quello poetico francese, attraverso movimenti e oggetti, frammenti e atti. Guarda al muto anche se è sonoro, parla una lingua distante e astratta, attraversa una vicenda personale per aprirsi su temi universali. Dal doppio senso apparente del titolo (“adescare” – da esca, nel senso più letterale – e allo stesso tempo “tormentare”), lavora di impressioni continue, di silenzi e distanze, di spazi apparentemente incolmabili tra le figure disegnate in un paesaggio sublime quanto inquietante. Come un piccolo dramma da camera, che supera immediatamente l’essere puro esercizio di stile per diventare, sugli schermi del Forum della Berlinale, un atto di cinema puro, metafora sulla condizione umana ed esistenziale che nasce e cresce minuto dopo minuto attraverso una storia quotidiana di apparente banalità. Bait è un film che pare non esistere, sogno lucido di tempi e spazi dissonanti. È uno spazio rurale, definito dal tempo che gli impone nuove coordinate e situazioni; è un viaggio attorno ai sentimenti nascosti, senza che essi possano mai apparire se non in forma rigorosamente comportamentista.
Siamo in Cornovaglia, in un tranquillissimo e sfavillante villaggio di pescatori che vive un vorticoso mutamento. Un luogo da cartolina, oramai preda di ricchi turisti londinesi che minacciano sempre più la sussistenza degli autoctoni, la loro esistenza ciclica e rituale, quasi metafisica. In questo ambiente, in un certo senso minacciato, anche i fratelli Steven e Martin si trovano sui due lati della barricata. Uno ha iniziato a utilizzare la piccola barca di famiglia per i tour dei facoltosi (e rumorosi) vacanzieri cittadini arrivati sull’isola, così che l’altro, marinaio di lungo corso, rimane senza scafo per le sue battute mattiniere di pesca. L’armonia è definitivamente strappata, squarciata dal nuovo stato delle cose, da un’anarchia di piccole ripicche e di minime vendette trasversali. I dialoghi sono secchi, spesso quasi surreali, impregnati di quel caustico humor inglese che cosparge le anime dure del paesello. Sequenza dopo sequenza la tensione si innesca (le liti per il parcheggio, le sfuriate nell’unico – splendido – pub del paese, le minacce che spaventano i turisti) per un climax inevitabile che porterà a un rottura già scritta. Torna apparentemente il silenzio, la vita fuori dal villaggio oramai appare costantemente in fuori campo. Il punto di non ritorno, a cui entrambi dovranno assistere, potrebbe portare ad una nuova prospettiva che non conosciamo. E intanto il villaggio rimane lì, incastonato e distante da ciò che gli uomini pensano e fanno. Il mare ha il suo orizzonte intangibile e infinito, e il sole impassibile continua a illuminarlo.
«Fishes live in the sea, as men do a-land; the great ones eat up the little ones», scriveva Shakespeare molti secoli fa, in una legge che pare ancora vigere oggi nella terra d’Albione, sulle sue rive scoscese. E Bait è esattamente questo, un turbine ciclico di primi piani strettissimi e campi infiniti, un montaggio estremo e di attrazioni vorticose, un rutilare di libere associazioni, figlie dell’avanguardia che fu e nuove rappresentanti delle tensioni sociali dell’oggi. Il rituale della pesca, filmato copiosamente in ogni dettaglio, riflette quasi la forma del documentario etnografico o d’inchiesta, quasi come fosse il necessario (e forse unico possibile) punto di partenza per tornare a far film in maniera politica nell’Inghilterra post-industriale, ora nelle briglie ancora sconosciute della Brexit e nelle sue derive incontrollabili. Jenkin guarda a Kuleshov più che a Ejzenstejn, cerca una primitività dello specifico filmico donandoci immagini graffiate e scintillanti, che tremolano costantemente attraverso la luce e che finiscono dissolte nelle tenebre. Per un’opera assai (e dichiaratamente) derivativa, che però trova il suo essere in un’impossibile classificazione (soprattutto attuale), cruda e straniante anche nell’uso del suono forzato ed extra-diegetico, anch’esso pienamente espressionista. Bait è un film che respira lo stesso disorientamento che vivono i suoi protagonisti, aggrappati costantemente a un filo in attesa del disastro, del naufragio (metaforico) in cui è incapsulato questo dramma narrativamente classico e minimale. Anche l’emotività così è stilizzata e sospesa, quella di chi vive il dramma come quella di coloro che lo guardano smarriti, come davanti a un oggetto misterioso ed estremamente affascinante, difficile da decifrare. Un’odissea il low-fi che lascia interdetti e attoniti, un’estetizzazione anti-spettacolare tra le più radicali degli ultimi tempi, filmando la realtà per costruirne un altra apparente in cui lo spazio-tempo è deformato e piegato ai nostri deliri come alle nostre ossessioni. Un piccolo gioiello che, in poco più di un ora, ci riporta indietro ad un altra società (come a un altro cinema). A noi volerci accedere.
Erik Negro