BAD LUCK BANGING OR LOONY PORN (2021), di Radu Jude
«Da Ermes Perseo ricevette la falce d’acciaio; poi volò fino all’Oceano, e trovò le Gorgoni addormentate. Erano tre: Steno, Euriale e Medusa. Solo Medusa era mortale: quindi Perseo doveva prendere la testa di quest’ultima. Le Gorgoni, al posto dei capelli, avevano serpenti attorcigliati, irti di squame; e avevano enormi zanne di cinghiale, e mani di bronzo e ali d’oro, con le quali potevano volare. E chiunque le guardasse veniva trasformato in pietra. Perseo dunque le assalì mentre dormivano. Atena guidava la sua mano: tenendo la testa girata, e guardando l’immagine di Medusa riflessa nello scudo di bronzo, le tagliò la testa. E dal collo mozzato saltò fuori Pegaso, il cavallo alato, e Crisaore, il padre di Gerione, che Medusa aveva generato con Poseidone».
Apollodoro, Biblioteca, Libro 2, Capo 4
Sta probabilmente nello scudo di Atena che Perseo utilizzò per decapitare Medusa, il senso più intimo dello schermo cinematografico. Una superficie lucida in grado di disarmare il potere pietrificante di ciò che, se guardato direttamente, sarebbe troppo mostruoso e atterrente per poterlo umanamente sostenere. Per non finire preda del suo sguardo assassino se ne può vedere solo un’immagine, una rappresentazione, un riflesso nell’interno a specchio del mitologico scudo, che dalla giusta distanza possa riportarne le esatte fattezze nel buio di una sala. Fino a rendersi conto del paradosso che, per guardare nitidamente la realtà, non si può far altro che iniziare a immaginare una finzione. Lo dice apertamente Radu Jude – o meglio lo scrive, nei sottotitoli che stratificano di uno straordinario glossario di riferimenti e aforismi la sezione centrale del film – nella sua ultima e tripartita fatica Bad luck banging or loony porn. Una perfetta dichiarazione programmatica non solo di questo ennesimo capolavoro meritato Orso d’Oro alla Berlinale 2021, ma di tutto il cinema multiforme e sempre spiazzante del geniale cineasta rumeno, sempre a scrutare, fra le pieghe teoriche dei suoi mille linguaggi, come la Storia si ripercuota sulla società presente senza paura di affrontarne i capitoli più scomodi, quelli che in genere si preferisce non raccontare, quelli di un passato destrorso e di un presente reazionario che, nel mezzo, i crimini (tra)vestiti di rosso di Ceaușescu hanno trasformato nelle generali omissioni, autoassoluzioni e glorificazioni di personaggi spesso ancor più criminali che stavano dall’altra parte. È il cinema l’unico possibile mezzo – di studio – per potersi soffermare sull’osceno, per sviscerarlo, per afferrarne la più ipocrita e serpeggiante natura. Per stanarlo dalle contraddizioni in cui si nasconde, molto più radicato nel suo tentativo di dissimularsi che in ogni sua possibile esibizione. Tanto che l’osceno non sta mai nelle immagini, ma semmai nell’uso che se ne fa, e più in generale si annida spesso fra gli (in)consapevoli scheletri nell’armadio di chi le guarda e punta il dito, magari senza rendersi nemmeno conto di stare indicando se stesso. Nemmeno la pornografia, per antonomasia arte dell’oscenità, è di per sé oscena. Il filmato di sesso non simulato in POV amatoriale che apre il film, anzi, non è altro che un gioco fra coniugi tanto innocente da far ridere, mentre una madre/nonna fuori dalla porta, con quell’ironia caustica, amara, disincantata, lucida e politicamente scorrettissima che fino all’aperta provocazione anticlericale del fotogramma finale su cui scorreranno i titoli di coda permeerà ogni singola immagine di Bad luck banging or loony porn, ricorda alla figlia e al marito nel bel mezzo dell’amplesso di andarle a ritirare le ricette in farmacia. Sarà solo nella riproposizione dello stesso video sul tablet all’inizio dell’assemblea con la quale i genitori letteralmente processeranno l’insegnante protagonista che emergerà il vero osceno, quello della società, della vita quotidiana, del livello dei dibattiti. L’osceno di una spada di Damocle sospesa sull’impassibile imbarazzo di una docente nell’accalcarsi dei genitori che si avvicinano – loro sì, oscenamente curiosi e lussuriosi – allo schermo che la ritrae nell’intimità coniugale della sua camera da letto. Magari addentando una banana, oppure ostentando falsamente disgusto per poi iniziare a spostare la testa, innalzare il sopracciglio, alzarsi in piedi, commentare, pensare che si vorrebbe tantissimo essere al suo posto ma non si potrà mai ammetterlo, né a se stessi né tanto meno al perbenismo puritano del consesso. Ma andiamo per ordine.
È impossibile tentare di ingabbiare una gemma inestimabile come Bad luck banging or loony porn, destinato alla distribuzione italiana come Sesso sfortunato o follie porno, in coordinate predefinite. Un film che inizia con un porno per diventare commedia straordinariamente spassosa, cinema realista, film-saggio, film dialettico, film politico, archivio storico, film teorico di forme e di (im)possibilità. Persino un instant movie fatto di mascherine dalle più improbabili fatture e di compulsiva igienizzazione delle mani – chi più preoccupato, rigido e rispettoso, e chi più insofferente alle regole che tante libertà stanno ancora limitando ma che pure borbottando non potrà che adeguarsi al termoscanner – con cui il cineasta rumeno per primo sintetizza con mirabile lucidità il cambiamento che il Covid ha avuto nelle nostre vite distanziate: non un film sulla pandemia, scoppiata nel periodo intercorso fra la scrittura e le riprese, ma un film nella pandemia, che integra nel suo scorrere la contemporaneità provvisoria eppure già radicata delle nostre ‘nuove’ abitudini. Forse, nel suo bombardamento di riferimenti da Eco a Gombrowicz, da Virginia Woolf a Cioran, da Brecht a Kundera, da Walter Benjamin a Jean-Paul Sartre, l’apice della capacità di Radu Jude, fra i più fini esploratori dei linguaggi cinematografici dalla classicità della narrazione alla pura sperimentazione, di disorientare lo spettatore. Questa volta non più negli scarti fra un titolo e l’altro, ma anche all’interno dello stesso film, destinato a mutare più volte pelle e continuamente spiazzare. C’è persino la locandina di Touch me not, che appare come per rivendicare il pasoliniano diritto/dovere autoriale di scandalizzare, e c’è pure un’apertura al postmoderno con il fischiettato del tarantiniano Kill Bill, mentre la protagonista percorrerà il corridoio che la porterà, da imputata, verso quel cortile scolastico adibito a tribunale popolare. Non è certo un caso, in tal senso, la scelta di Jude di declinare il film nel numero perfetto di tre parti radicalmente differenti e tre ipotesi di (non) finale, perché il confine è già stato ampiamente superato e, a prescindere dall’assoluzione o dalla condanna della protagonista, non potrà (mai) più esistere la soluzione realmente giusta, univoca e condivisa di un ‘vero’ finale. Resterà solo la caciara del cinema, ultimo spiraglio di illusione e magia a metà strada fra Takashi Miike e Wonder Woman in cui, per lo meno nel sogno, può ancora intrufolarsi almeno un barlume di giustizia – rigorosamente sommaria, l’unica rimasta, ma tanto basta: non piegarsi all’infinito conformismo della società contemporanea vuol dire riscoprirsi come dei piccoli e “impossibili” supereroi. Lo spunto narrativo è semplicissimo: il filmato più privato di Emi, preparata e stimata insegnante di scuola, finisce online su un sito porno e da lì, quasi inevitabilmente, sui computer e sui cellulari degli studenti. Non importa come ci sia finito, se sia stato un errore di famiglia o un furto di dati quando il computer è stato portato a riparare, e del resto, per quanto nell’Italia di questi giorni sia difficile non pensare alla vicenda della docente di Torino finalmente riabilitata come vittima dopo anni di persecuzioni, Bad luck banging or loony porn non vuole essere in alcun modo un film sul revenge porn. Quello che conta è la gogna a cui la protagonista si dovrà sottoporre, in un vero e proprio confronto con i peggiori esemplari di familiari chiamati a decidere se tenerla o farla licenziare. Una pletora di bacchettoni ipocriti, contraddittori ed egocentrici, fra mamme pancine, nonni, piloti, preti e militari (in)consapevoli mediocri che millantano superiorità per sentirsi migliori, tronfi nella loro abissale ignoranza xenofoba e antistorica dopo non essere stati nemmeno in grado di installare un filtro parentale sui dispositivi elettronici dati in mano ai figli. Senza nemmeno rendersi conto di come, a ben vedere, nel contesto fittizio al quale appartengono i loro personaggi (ben diverso dalla realtà di quello che è un film scritto, messo in scena e recitato per un pubblico) il video incriminato nemmeno sia realmente considerabile come pornografia. Come potrebbe esserlo, del resto, senza che sia un lavoro ma semplicemente un gioco di coppia? Come potrebbe esserlo senza che sia previsto alcuno spettatore a guardarlo? E, ancora più a monte, perché sarebbe più accettabile stare nudi su una spiaggia naturista – come solita fare la preside, da sempre giustamente incurante dei genitori e degli alunni incontrati nel contesto – che in un filmato casalingo e privato?
Segue l’intera giornata del “processo” Radu Jude, dal pedinamento in giro per le contraddizioni di Bucarest della prima parte all’assemblea nel cortile scolastico che occuperà la terza, passando per quella straordinaria sezione centrale di “note a piè di pagina” che contestualizza, storicizza e stratifica tutti i riferimenti, alti e bassi, su cui la sceneggiatura è stata forgiata. Raccontando apertamente dei doppi titoli già pronti dei giornali che ancora non sapevano se la Romania avrebbe scelto di allearsi con Hitler o con Stalin, dei genocidi compiuti in fretta e furia perché le truppe potessero godersi il Natale, del senso del cinema, del montaggio e della Storia, delle metafore e delle riviste di guerra, delle rivoluzioni diventate dolci o vini, degli uomini e dei robot, del potere e dei più improbabili cantori della mascolinità tossica, dei bambini maltrattati dalle famiglie e dell’intolleranza verso le non binarietà di gender, delle poesie e dei bastoni lunghi un metro e mezzo con cui ballare in pandemia. Ma anche della «fata di pagina 5» che da sempre sdogana la mercificazione del corpo a mezzo stampa, della pornografia e del razzismo aggressivo, del (cattivo) gusto e del passato (?) fascista della chiesa ortodossa, o ancora del termine “pompino” ampiamente in testa alle ricerche su Google. Già, il pompino. Quella pietra dello scandalo praticata da Emi a suo marito nel video incriminato. Quella cosa che l’assemblea parrebbe così concorde nel definire «non fare l’amore», perché «lo fanno le puttane». Quell’esempio che, stando alle loro parole al veleno, porterebbe i figli fuori dalla moralità, dato proprio da chi dovrebbe insegnare loro i valori, la Storia e la cultura. Come se la fellatio non fosse una normale pratica di coppia. Che pure le madri in assemblea non disdegnano, come non perdono occasione di lasciarsi scappare. E come se Eminescu, inscalfibile nella sua aura di maggiore personalità letteraria e culturale fra i rumeni di ogni tempo, nella sua produzione più oscura non si fosse dilettato a scrivere sonetti piuttosto espliciti di voglie e di lussurie. Solo che, banalmente, gli altolocati e ipocriti accusatori non lo sanno, spalleggiandosi a vicenda nella loro boriosa ignoranza. Forse senza nemmeno rendersi conto della loro figura barbina, una volta messi di fronte alla doppia evidenza – della rude lascivia del poeta nazionale generalmente omessa dai programmi scolastici e della profonda preparazione di un’ottima docente – recitata a memoria dalla cattedra. Novelli Savonarola contraddittori, moralisti, reazionari ed egoriferiti, perfetti abitanti di quella città in cui la protagonista si aggirava nella prima parte del film fra gli spot più allusivi che esaltano il corpo e l’arrogante compensazione di chi parcheggia sulle strisce la sua jeep gigante per poi magari scendere in ciabatte e canottiera in tutto il proprio metro e 60, fra i centri commerciali, le anziane che dal nulla guardano in macchina urlando porcate e i luoghi di cultura oramai in rovina. Una città arrogante, litigiosa e conformista, che si erge a paladina della moralità ma nel rivedere la frusta rimpiange l’irripetibile di quegli appartamenti negli anni Ottanta. Una città che cita senza capirli Thomas Kuhn, Hannah Arendt e Isaac Babel, e che nel frattempo declama dallo schermo di uno smartphone i pareri dei più strampalati sociologi per cercare improbabili e ben poco calzanti nessi fra l’accaduto, la funzione pedagogica e la violenza. Una città che mentre recita la parte dell’apologeta della decenza ficca il naso viziosa e scostumata nell’intimità altrui, e che impunemente dà della troia alla stessa persona a cui solo pochi mesi prima implorava un voto più alto con adulazioni, sotterfugi e tentativi di corruzione. C’è chi antepone il voto alla sete di conoscenza, c’è chi tira fuori del tutto a sproposito perfino la pornografia infantile, c’è chi cita espressamente il berlusconiano bunga-bunga, e c’è chi si lamenta per lo studio mnemonico che la scuola impone, prontamente smentito dalle parole del pedagogista Doru Căstăian su come memorizzare sia scientificamente esercizio per il cervello, e quindi insegni a ragionare a una memoria attiva che processa le informazioni e le sviluppa in pensiero. Ma soprattutto c’è chi si lamenta, magari dall’abito talare, perché a scuola si insegna la verità sull’olocausto anziché negare le verità storiche sul ruolo pienamente attivo della Romania nelle persecuzioni, mostrando senza alcuna vergogna l’antisemitismo ancora serpeggiante nella società contemporanea, l’ideologia militarista e ostentatamente fascista che non prova alcuna vergogna per i crimini perpetrati da Antonescu, il complottismo cospirazionista di chi è realmente convinto che la Shoah sia stata organizzata dagli ebrei morti in massa come scusa per poter fondare Israele, o che Soros e Bill Gates paghino gli insegnanti per intrufolarsi nelle coscienze delle nuove generazioni. Una platea omofoba e orgogliosamente razzista contro ebrei e rom, tanto bacchettona quanto ipocrita e contraddittoria, pedine di un tunnel senza uscita chiamato borghesia, contemporaneità, sistema. L’unico vero osceno. Un ventre molle contro il quale, comunque vada, abbiamo già perso, ma al quale sarebbe bellissimo poter ricacciare in gola ogni malignità, ogni ipocrisia, ogni conformismo. Ogni cazzata, nel vero senso della parola. Un po’ come decapitare Medusa e tutti i suoi serpenti, ma con un gigantesco dildo di gomma rosa. Quello che il cinema, solo il (grandissimo) cinema, può ancora osare.
Marco Romagna